UN PATTO TRA CITTADINI E ISTITUZIONI PER CUSTODIRE LA BELLEZZA
In un libro, Gregorio Arena rilancia il valore dell'impegno dei "custodi della bellezza" e l'esperienza dei Regolamenti per l'Amministrazione condivisa
02 Novembre 2020
Il nostro Paese conta più di 800mila “custodi della bellezza”, ma in pochi lo sanno. Sono cittadine e cittadini volontari, che ogni giorno curano piazze, strade, giardini, scuole, aree pubbliche ovvero quei beni comuni di cui spesso pochi si sentono responsabili. Riduttivo considerarli, ancora, semplici “pulitori di strada” chiamati a colmare le inadempienze delle aziende pubbliche, proprio perché siamo davanti a migliaia di cittadini e associazioni che affiancano le pubbliche amministrazioni nel prendersi cura di questi beni.
Una grande palestra di cittadinanza attiva che lo stesso ordinamento giuridico riconosce: non soltanto i cittadini hanno il diritto di prendersi cura dei beni pubblici, ma l’art. 118 della Costituzione impone persino alle amministrazioni di sostenerli in questa loro azione di cura. Da questo principio cardine stanno nascendo diverse disposizioni locali: la legge regionale del Lazio n. 10 del 26 giugno 2019, intitolata “Promozione dell’amministrazione condivisa dei beni comuni”. O ancora gli oltre 200 “Regolamenti per l’amministrazione condivisa” che dal 2014 ad oggi molti comuni italiani hanno adottato, siglando dei patti di collaborazione con cittadini attivi ed enti del terzo settore. Ci troviamo, quindi, davanti a migliaia di esperienze partecipative, sempre più in espansione; carenti ancora di un lavoro di rete, ma che certamente dimostrano di avere peso e influenza sulle sorti di molti nostri territori.
L’associazione Labsus da oltre quindici anni, raccoglie, promuove e sostiene queste iniziative di cittadinanza attiva mettendo in rete molti dei suoi attori. Da questo confronto è nato il volume “I custodi della bellezza. Prendersi cura dei beni comuni. Un patto fra i cittadini e istituzioni per far ripartire l’Italia”, che si può acquistare a questo link. L’ha scritto da Gregorio Arena, docente di Diritto Amministrativo presso l’Università di Trento e presidente di Labsus.
Professore, chi sono questi “custodi della bellezza” ma soprattutto cosa li spinge a curare i beni pubblici?
«È un titolo evocativo, ma rappresentativo di persone normalissime che un bel giorno con i propri vicini di casa scendono in piazza per rendere un parco o una piazza più bella, più pulita, più in ordine. Nessuno li ha sollecitati a farlo, ma sono cittadini che prendono l’iniziativa per contribuire a fare qualcosa di utile per tutti. Sono volontari un po’ “egoisti”, perché si attivano innanzitutto per stare meglio loro: quella è la molla iniziale».
Quindi potremmo considerarli supplenti di amministrazioni carenti?
«Il rischio di questa lettura c’è, perché in Italia spesso noi cittadini dobbiamo arrangiarci colmando le carenze di molti soggetti pubblici. Qui, però, la prospettiva è diversa e molto dipende dall’atteggiamento che i cittadini hanno nei confronti della propria amministrazione. I “patti di collaborazione” che noi di Labsus promoviamo, danno pari dignità (e responsabilità) sia al soggetto pubblico sia al cittadino. Da ciò deriva che queste persone non possono essere considerate supplenti, né si considerano supplenti esse stesse. A differenza delle adozioni, degli affidamenti, delle concessioni (classici strumenti amministrativi con cui i comuni delegano le proprie funzioni), qui le amministrazioni non possono ritrarsi, devono restare in campo e dare il proprio contributo alla cura dei beni comuni insieme con i loro alleati, i cittadini attivi. Fra le centinaia di amministratori locali che ho incontrato in questi anni, non ho mai colto un atteggiamento del tipo: “ah bene, sono arrivati questi a farsi carico del problema, così posso liberarmene”. I problemi della comunità si risolvono sempre insieme, cittadini attivi e amministratori».
Da qui l’esigenza di dotare queste esperienze di un quadro normativo…
«I cittadini attivi ci sono sempre stati, ma nel passato si muovevano nell’ambito di una situazione non regolamentata con i conseguenti problemi riguardanti le assicurazioni, le responsabilità e così via, ma soprattutto si scontravano con burocrazie comunali che ostacolavano il loro prezioso contributo. Ciò che in questi anni Labsus ha fatto, è stato fornire un quadro giuridico all’interno del quale muoversi in piena legalità. Il 22 febbraio 2014 a Bologna abbiamo presentato il primo Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni: ricordo una sala colma di cittadini e associazioni di quartiere che avevano contribuito a stilare il Regolamento. Quello stesso pomeriggio pubblicammo il Regolamento sul nostro sito, con la possibilità di scaricarlo e implementarlo in altre piccole e grandi realtà italiane: la mattina dopo ricevemmo centinaia di richieste. Oggi 220 comuni italiani hanno adottato questo regolamento».
Dal punto di vista giuridico in cosa si concretizza un “patto di collaborazione” tra cittadini attivi e amministratori locali?
«Nel diritto privato, quando due soggetti stipulano un contratto, producono una regola giuridica che ciascuna delle parti si impegna a rispettare. Nei patti di collaborazione accade la stessa cosa: i cittadini e l’amministrazione si impegnano gli uni con gli altri e così facendo producono un quadro di regole alle quali attenersi. Per il diritto amministrativo, strutturato da sempre in modo gerarchico, verticale, autoritativo, questa è una radicale novità. L’interpretazione del principio di sussidiarietà, che noi di Labsus promuoviamo è proprio quello che mette cittadini e amministratori sullo stesso piano generando una responsabilità condivisa nei confronti dei beni comuni. Del resto, questa è l’interpretazione che diedi 15 anni fa in un mio saggio, teorizzando per la prima volta l’amministrazione condivisa, fondata su una collaborazione circolare, che oggi si sta dimostrando vincente in molti contesti».
Un sistema virtuoso sotto tanti aspetti, che però lei stesso considera ancora carente di organizzazione. Come mai?
«Si tratta di fare un passaggio di livello. Attualmente i patti di collaborazione sono stipulati a livello locale. Ora vorremmo che fossero le Regioni a coordinare i Comuni che nel proprio territorio hanno adottato il regolamento: formare i dipendenti, creare una banca dati condivisa, intervenire nel caso sorgessero difficoltà. Si tratterebbe, appunto, di organizzare e strutturare questo nuovo modello di amministrazione».
Finora abbiamo parlato di cittadini virtuosi, appunto quelli attivi. Ma sappiamo che i beni pubblici il più delle volte non vengono considerati di tutti e per questo motivo sono danneggiati e depredati. Come può avvenire questo cambio di prospettiva?
«È certamente un punto cruciale. Lo sappiamo, in Italia, i beni pubblici non sono considerati beni di tutti, ma di proprietà di qualcun altro: il preside per quanto riguarda una scuola, il Demanio per quanto riguarda una piazza ecc. Va a fuoco un bosco? Non è un problema mio, se ne deve occupare il soggetto pubblico. Proprio per questo motivo credo che rendere il cittadino responsabile della cura di un bene pubblico attraverso un patto di collaborazione farà sentire ancora più “suo” quel parco, quella villa, quella piazza, pur non potendone mai diventare proprietario. In questo cambio di paradigma occorrerebbe un piano nazionale per la cura dei beni comuni, che svolga principalmente due attività: comunicare e coordinare».
Il Covid sta limitando molte di queste attività. Potremmo ripartire proprio da queste esperienze di cittadinanza attiva per far ripartire il Paese?
«La pandemia ci sta relegando in una posizione di assoluta subordinazione, subalternità, passività rispetto al potere pubblico (per esempio limitando la nostra libertà di movimento per tutelare la salute). Mi chiedo allora se non sia possibile, pur rispettando ovviamente tutte le ordinanze governative, mobilitare i cittadini come protagonisti nella cura dei beni comuni in modo che, riscoprendo il senso di comunità e di appartenenza, contribuiscano alla tenuta materiale e psicologica del Paese. Non è tanto l’aspetto materiale della cura della piazza o del giardino che conta, quanto il fatto che le persone riscoprano i legami che le uniscono incontrandosi sotto casa per svolgere un’attività in piena sicurezza. Riscoprire i patti di collaborazione come antidoto alla solitudine ed al distanziamento psicologico causato da un perpetuarsi di quello fisico».
Quando un regolamento di amministrazione condivisa per Roma? Di forze in campo ce ne sono molte…
«Insieme ad altre associazioni avevamo promosso una raccolta di firme per una delibera di iniziativa popolare. Avevamo raggiunto quota 15mila firme (quando secondo lo statuto capitolino ne bastavano 5mila). La proposta è stata discussa in assemblea capitolina pochi giorni fa ma con 20 voti a favore e 20 astenuti è stata respinta. Le elezioni si avvicinano, ritenteremo con la prossima legislatura».
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