4 NOVEMBRE. FUORI LA GUERRA DALLA STORIA E DALLA SCUOLA
È l’appello dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole per il 4 novembre, in cui si torna a celebrare, per legge e anche negli istituti scolastici di ogni ordine e grado, la vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Antonio Mazzeo: «La scuola dovrebbe opporsi al modello caserma, veicolando i valori della pace, della libertà e della diserzione»
04 Novembre 2024
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Si può celebrare il ricordo di una guerra in una fase storica nella quale i conflitti riprendono ad allargarsi a macchia d’olio in tutto il pianeta? È la domanda che l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università continua a porsi da anni, e che il 30 ottobre ha rivolto ai docenti di tutta Italia, con preoccupazione e spirito critico, durante un convegno in modalità telematica. Nell’occasione è stato lanciato un allarme in vista della giornata di oggi, 4 novembre, in cui si torna a celebrare, per legge e anche negli istituti scolastici di ogni ordine e grado, la vittoria dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Un ricordo che si unisce ai concetti di Unità nazionale e celebrazione del ruolo delle Forze Armate; secondo alcuni, andando oltre il semplice e condivisibile concetto di fiducia e rispetto nei confronti di esercito, carabinieri, finanza, marina e aeronautica.
4 novembre: l’appello dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole
L’Osservatorio ha contestato apertamente la ricorrenza, che trova ampio sostegno da parte di tutte le forze politiche con diverse iniziative in programma tra cui una cerimonia nazionale, a Roma, alla presenza del Presidente della Repubblica. “Fuori la guerra dalla storia e dalla scuola” è stato l’appello degli organizzatori del convegno; perché, spiegano, «un’altra narrazione è necessaria, così come è necessario un ampio movimento per la pace. La realtà della guerra e del genocidio non può essere mistificata: sangue, morte, distruzione, mutilazioni di milioni di umani, di animali e distruzione dell’ambiente sono gli orizzonti che vorrebbero edulcorare, subordinando le spese sociali a quelle militari». «Almeno 17 milioni di persone hanno perso la vita durante il primo conflitto mondiale, di cui 7 milioni di civili, senza dimenticare i mutilati e gli invalidi», ha ricordato la saggista Alessandra Kersevan nel suo intervento. Dopo un breve excursus storico sulle ragioni che portarono alla guerra («furono l’imperialismo e le risorse materiali ed economiche, mentre continua a passare il messaggio patriottico del completamento del Risorgimento»), Kersevan ha parlato anche dell’eredità lasciata dal 15-18: «Il razzismo tra i popoli, l’odio reciproco, l’insoddisfazione dei vinti per le punizioni troppo esagerate ma anche dei vincitori e il proliferare delle grandi dittature. Cose c’è, dunque, da festeggiare?». Così, mentre il ministero della Difesa descrive l’iniziativa come un ricordo che “commemora i Caduti, dell’Armistizio di Villa Giusti che consentì agli italiani di rientrare nei territori di Trento e Trieste, e portare a compimento il processo di unificazione nazionale iniziato in epoca risorgimentale”, secondo i critici una celebrazione di questo tenore farebbe parte di una più ampia azione di propaganda del governo, «che pone la guerra come strumento inevitabile per difendere i territori, e che considererebbe i riarmi come necessari per la sicurezza». Difficile trovare un punto d’incontro partendo da prospettive così distanti. Il ministro Guido Crosetto, inaugurando il “Villaggio Difesa” al Circo Massimo, ha detto ad esempio che «festeggiare oggi le forze armate significa ricordarsi delle persone che ogni giorno lavorano per garantire la nostra sicurezza non solo in Italia ma in ogni luogo dove la guerra sta procurando ferite. Significa inchinarsi a centinaia di migliaia di persone che lo fanno in silenzio. Nessuno vede il soldato impegnato in “Strade sicure”, oppure il marinaio in navigazione nel Mar Rosso».
La scuola rischia di assorbire messaggi di guerra senza avere anticorpi di pace
Laura Marchetti insegna antropologia e pedagogia interculturale all’Università di Reggio Calabria e, viceversa, ha definito la ricorrenza «una festa barbarica e di regressione culturale». Secondo la docente, le intenzioni dell’Esecutivo sarebbero chiare a partire dallo spot istituzionale che sta andando in onda: nella pubblicità il concetto stesso di patria non è esplicitato mostrando le bellezze culturali, naturali e architettoniche del Paese, bensì tramite «elicotteri, caccia, armi, blitz e militari in azione». Qualcuno potrebbe obiettare che è proprio questo che fanno le forze dell’ordine, e che l’Italia non è in guerra, eppure la scuola rischia di assorbire tutti questi messaggi senza avere gli anticorpi necessari per offrire, contestualmente, anche una risposta di pace. C’è una categoria di intellettuali, sempre più nutrita, che oggi teme un rigurgito di sentimenti esasperatamente nazionalistici e che intravede nell’uso della forza l’unica risposta ai problemi geopolitici. Il tema della militarizzazione culturale è stato affrontato ancora più nello specifico da Charlie Barnao, docente ordinario di sociologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro. «C’è una militarizzazione esplicita, che consiste nell’entrata dei militari nelle scuole con vari progetti di educazione civica, o con gli inviti sempre più frequenti delle classi nelle caserme, ma anche una latente. E la vediamo nello sport, nei programmi televisivi, nei videogame, nella giustizia, nelle aziende. Tutto è competizione esasperata, morte e rigidità di pensiero, mentre l’umiliazione viene usata ormai come un modello pedagogico». Per il docente e giornalista Antonio Mazzeo, parlare di confini, di “caduti per la patria”, di “giovani impavidi che andarono al fronte”, di ragazzi che “combatterono per dare un senso alla vita di tutti” e di uomo che è “vero uomo se è martire delle sue idee”, come si legge in alcuni documenti ufficiali di diversi uffici scolastici, «è l’esaltazione e l’esasperazione di alcuni valori che valori non sono, tipici del ventennio fascista. Sono linguaggi coloniali nei quali manca la condanna della violenza della guerra e l’analisi delle conseguenze socio-economiche dei conflitti». «La scuola dovrebbe opporsi al modello caserma, veicolando i valori della pace, della libertà e della diserzione», ha concluso Mazzeo.