ROMA, SAN FRUMENZIO: L’ACCOGLIENZA COME STILE DELLA COMUNITÀ
La parrocchia ospita profughi, ma si occupa anche di molte altre persone. Grazie all'apporto di tutti i membri della comunità
03 Novembre 2016
«Visto che noi siamo, per voi, infedeli: ma perché non ve ne andate nel vostro Califfato di Iraq con il santo Califfo Al Baghdadi?». Con questo cartello all’ingresso di una delle parrocchie di Gorino Ferrarese, Don Paolo Paccagnella accoglie quotidianamente i suoi fedeli. Il paesino in provincia di Ferrara è balzato nei giorni scorsi alle cronache, per le violente barricate che i suoi abitanti hanno issato respingendo la decisione del prefetto di ospitare un gruppo di donne migranti con i propri bambini. Ma a rincarare la dose di questa brutta vicenda è stato, appunto, questo parroco che, interpellato, ha risposto: «Chi sono io per giudicare? Io le barricate non le comprendo, ma alle barricate non si sarebbe dovuto neppure arrivare. Dovevano avvisarci prima».
Don Paolo, purtroppo, non è l’unico parroco italiano che guarda con diffidenza l’accoglienza dei profughi. Le motivazioni sono diverse (il più delle volte economiche), ma basta leggere i dati comunicati da Caritas sull’accoglienza nelle parrocchie italiane per rendersi conto di quanti abbiano risposto concretamente agli inviti del Papa. Don Daniele Salera da poche settimane guida la parrocchia di San Frumenzio ai Prati Fiscali a Roma, una delle realtà a più alta vocazione sociale dell’intera capitale. Con lui abbiamo cercato di leggere e comprendere meglio il fenomeno.
La vicenda del parroco di Gorino ci dimostra che non tutti sposano l’idea di una parrocchia a “vocazione sociale”. Secondo te perché?
«Ci troviamo di fronte ad una fase unica della storia dei popoli e questo ci richiede una lettura calma che non può, però, pretendere di utilizzare i criteri ordinari. L’accoglienza nelle parrocchie deve tenere conto, evidentemente, che esse non sono centri di accoglienza o ostelli. Ma non è detto che non possano esserlo in parte, strutturandosi per un’accoglienza calibrata sulle proprie forze. Non vedo questo essere “multitasking” della parrocchia come un ostacolo. Anzi, grazie alle diverse competenze e capacità dei parrocchiani, si potrebbero organizzare dei servizi ad hoc».
Quali motivazioni alimentano questi comportamenti di chiusura?
«Ci sono alcuni nuclei – concentrati per lo più nel nord italia – che manifestano delle forti chiusure. Il sentire comune di questa gente subisce chiaramente le influenze di alcuni partiti nazionalisti che vogliono guadagnare consensi. Questi politici non fanno altro che gettare benzina su un fuoco di pregiudizi diffusi, ma falsi. Si fa prevalere il diritto personale sulla una giustizia sociale. E questo può innescare un meccanismo infinito: il bisogno di difendere i diritti acquisiti potrebbe non avere un termine, come anche il sospetto e la rabbia diffusa. E questo non è relativo solo al tema migranti».
Quali difficoltà comporta accogliere migranti e rifugiati in una parrocchia?
«Accogliere non vuol dire solo offrire un tetto sotto cui stare. Lo stiamo sperimentando con i rifugiati che alloggiano da noi grazie alla collaborazione con la Caritas diocesana. Non basta dargli una stanza o una cucina, sono molto giovani, hanno bisogno di fare, di sentirsi utili. Può capitare che i parrocchiani che si occupano di loro siano pensionati, mentre a loro farebbe bene avere qualche coetaneo con cui parlare o fare sport. È evidente che l’accoglienza intesa come “offerta di una dimora” non è tutto. Ci vogliono progetti strutturati che molte parrocchie, soprattutto quelle di ceto sociale più elevato, possono essere in grado di sostenere».
Per anni sei stato parroco nel quartiere di Tor Bella Monaca. Un’emergenza tutta italiana, ma non meno complessa rispetto a quella migratoria…
«A Tor Bella Monaca il disagio sociale è tutto “autoctono”. Uno dei servizi più frequenti, che mi veniva richiesto, era quello di mediare tra relazioni spesso conflittuali. Tor Bella Monaca è la zona di Roma col più alto livello di abbandono scolastico, con la più alta presenza di carcerati agli arresti domiciliari, per non parlare di tossicodipendenti e spaccio. L’esperienza che abbiamo portato avanti con il parroco è stata quella di concedere parte della canonica per la realizzazione di un centro destinato ai bambini delle elementari all’uscita da scuola: qui li facevamo studiare, gli garantivamo una merenda e la cena e poi li riaccompagnavamo a casa intorno alle 21. Questa esperienza, ad esempio, ha raccolto tanto entusiasmo dai parrocchiani».
Cosa risponderesti al parroco di Gorino Ferrarese?
«Più leggo sui giornali di questi episodi e più mi rendo conto che l’italiano medio di per sé è molto accogliente. Quello che sta accadendo in Italia dimostra il grande cuore che il nostro popolo ha riguardo ai temi dell’accoglienza, dei migranti e della povertà. Basti pensare al bellissimo film “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, che mette insieme la semplicità della gente di Lampedusa con la professionalità di tutto il personale inviato sul posto. Oggi guido la parrocchia di San Frumenzio ai Prati Fiscali, il cui stile comunitario si concretizza nella parola “accoglienza”. Questa parrocchia vive la dinamica dell’ospitalità proprio in modo sanguigno: su questi temi non c’è solo una tradizione, ma anche una forte sensibilità. Questa, per me, è l’Italia da raccontare».