ADDIO A LESTER SALAMON, L’UOMO CHE MISURAVA IL VOLONTARIATO
Ha creato il Centro per gli Studi sulla Società civile della Johns Hopkins University. E credeva nella statistica come strumento di cambiamento.
25 Agosto 2021
«Perché abbiamo condiviso una comunità di intenti». Così ha espresso il suo dolore Renzo Razzano quando gli ho anticipato la notizia della morte di Lester Salamon. Ha ragione. Per quasi quindici anni abbiamo collaborato, come CSV , nelle reti europee, in una straordinaria galassia di relazioni tra operatori del Terzo settore, accademici, statistici, funzionari pubblici, politici, come giustamente ha colto la Presidente di CSVnet Chiara Tomassini nel messaggio di cordoglio alle colleghe del Centro per gli Studi sulla Società civile della Johns Hopkins University che Salamon ha creato e diretto. Dove ha lavorato fino allo scoccare del suo ultimo Shabbat. «Ricordiamo le nostre collaborazioni, per le quali nuovamente ringraziamo».
Contare quel che conta
Ringraziamo. “Tutti gli siamo debitori”, anche se oggi gli ambienti accademici sono spaccati tra i sostenitori e gli oppositori della misurazione del non profit, sono concordi con me sia Marco Musella che Riccardo Guidi, che ha passato questi ultimi due anni a discutere animatamente con Salamon sul suo capitolo nel nostro libro dedicato all’esperienza italiana della statistica sul volontariato (“Accounting for the Varieties of Volunteering“, Riccardo Guidi, Ksenija Fonović, Tania Cappadozzi eds., ed. Springer 2021).
Gli siamo debitori perché ha messo in piedi un sistema tangibile al quale riferirci, sul quale lavorare, aggiustare per migliorare, capire meglio. Contare di più. Questa l’idea fissa di Lester Salamon: «Quel che non si conta, non conta». E di qui, appunto, la comunità di intenti, che si è andata costruendo in questi anni, con l’obiettivo ultimo che nelle scelte e riconoscimento pubblico il Terzo settore abbia il ruolo e il peso – che ha.
Da questo, tutto è cominciato. L’assemblea del CEV a Malmö, dedicata all’infrastruttura per il volontariato: i Csv di tutta Europa per la prima volta affermano chi sono. Noi portiamo la ricerca dei “libri verdi” realizzata con CNV, CSVnet e i CSV delle Marche, Lombardia, Genova, Basilicata. Tra i banchi alti di legno dell’aula magna Razzano incastra Lester Salomon a sfogliare i chili e chili di carta dello scibile sul volontariato di 27 paesi dell’UE. «Ah, avete usato i nostri dati». E certo, penso io, che ho perso la vista sulle tante bozze dei report, per diritto e per rovescio, in due lingue… Non c’è altro, per questo siamo andati sul campo a capire come stanno le cose, perché voi accademici non fate il vostro lavoro.
«Ah, avete fatto come noi, avete usato i corrispondenti locali.» Non abbiamo usato nessuno, penso io, abbiamo tessuto un partenariato. E costruito in partenza un glossario condiviso. Gli sparpaglio i fogli delle linee guida, già mi infervoro. Si stampava, all’epoca. Preistoria. Spunta dalla mappa la tovaglietta di carta del bar di Piazza Indipendenza sulla quale, con Marco Granelli, avevamo disegnato l’impianto dell’Area Europa di CSVnet.
Quel che sta dietro i numeretti
«Chi siete voi?» Organizzammo un convegno a Lucca. Capì chi eravamo. Si discuteva. Delle cose da fare, di come sono le associazioni, della storia italiana. Nelle mail, sui tavolini da pranzo. Faceva annotazioni nei quadernini, di colore diverso. Quindi, un colore per ogni continente, gli ho chiesto. Più o meno, divisi per progetti, poi per Paesi. Bene, ho pensato. Mi sono trovata uno più maniacale di me. Finiti convegni e riunioni ufficiali, si toglieva la cravatta, metteva le scarpe da tennis e il capellino da baseball. La mattina in albergo si alzava e faceva la ginnastica prima della colazione. Americano. Razzano si divertiva e cercava di fargli capire qualcosa sui vini.
Organizzammo un convegno al CNEL. Alberto Manni lo soprannominò “Bonciorno.” Conosceva bene il potenziale dell’Istat, che nel 2000 prese parte alla prima sperimentazione dello strumento del Censimento non profit. Era presidente Enrico Giovannini e facemmo la prima riunione con gli statistici sul Manuale ILO per la misurazione del lavoro volontario, ancora in bozza. Nella mia stanza, spostammo le scrivanie. Io per prima volta toccai con mano la statistica ufficiale. Quel che sta dietro i numeretti. Compresi. Quale grande leva.
Questa è stata la grande intuizione di Lester Salamon: la statistica istituzionale come strumento per arrivare a cambiamenti istituzionali. Andammo a Milano da Gian Paolo Barbetta per convincere ACRI a sostenere la promozione del Manuale ILO, in preparazione dell’Anno europeo del volontariato. In quel paio di anni si fecero tante cose, molte per la prima volta. Lobbying, e importanti documenti delle istituzioni europee che lasciarono un segno. Workshop e forum di discussione, e si rassodò il terreno del convincimento che l’azione volontaria ha elementi e valori in comune al di là delle differenze culturali.
Formazione e statistiche divennero persone. Molto per merito di allieve che in fatto di statistiche sul volontariato e di metodi di lavoro tra settori diversi tennero testa e superarono il maestro, come Megan Haddock e Tania Cappadozzi. Anche perché per Salamon la misurazione del volontariato è stato un po’ una figlia femmina: poteva cavarsela da sola. Dopo aver fatto fuoco e fiamme per dimostrare con i numeri che la maggiore risorsa del non profit erano i volontari, negli ultimi anni riteneva non meritasse il fulcro dell’attenzione degli studiosi. Io non ero d’accordo. E in una conferenza online durante il Covid me ne andai dal crocicchio dei pochi intimi rimasto a salutarsi, perché avevo da controbattere e non mi pareva il caso. Adesso mi dispiace: è stata l’ultima volta di averlo visto in faccia.
In direzione ostinata e contraria
E a Lester Salamon, per quanto gli piacesse fare lezione – e dare lezioni: mi torturava perché fumavo – piaceva discutere. Come ricordava Ulla Pappe, «nei lavori del progetto TSI rimaneva a ribattere sul punto fino a quando tutti gli altri, sfiniti, se la davano a gambe».
Forse proprio per questo abbiamo costruito un rapporto così solido, ci siamo riconosciuti nella testardaggine. Della direzione ostinata e contraria, una delle espressioni in italiano che gli avevo insegnato in una cena tête-à-tête su Via Merulana. Amava l’Italia. In cambio, mi raccontò del Caucaso, del nuovo filone di ricerca sulle fondazioni di comunità, delle esperienze delle privatizzazioni dei beni pubblici che vincolano una parte dei guadagni all’interesse generale. Una pista di lavoro, questa del progetto Philantropication through Privatization, sostenuto anche questo dalle fondazioni ex-bancarie italiane, di cui troppo poco si è parlato e che non ha fatto in tempo a usare come leva per advocy.
Ora, preparandomi per la cerimonia del commiato, rivedo la mia posizione su una cosa in cui pensavo avesse fallito: di non aver coltivato allievi, di non aver costruito una scuola. Mi ha dato la chiave una giovane compagna di percorso dell’AEV oggi, Daniela Bosioc, citando Brancusi che lasciava la bottega di Rodin, per poi rivoluzionare la scultura: «Nell’ombra dei grandi alberi non cresce niente».
Questo credo sia il lascito di Lester: ha dato la possibilità a tanti di prendere la propria strada. Adesso sta a ognuno di noi, di darle un senso. Un senso che magari possa essere utile anche ad altri, e al Terzo settore nel suo insieme.