ADOLESCENTI E HIKIKOMORI. LASCIO IL MONDO FUORI PERCHÈ…

Adolescenti, ritiro sociale, hikikomori tra scuola, famiglia e ambienti extra scolastici in un incontro proposto dal centro di aggregazione giovanile di Cies onlus, MaTeMù. Fenomeni che la pandemia ha solo acuito

di Maurizio Ermisino

«Sto pensando di la scuola perché non reggo più il peso di essere continuamente valutata». «Sto pensando di lasciare la scuola perché c’è troppo rumore, ho troppe cose nella testa, la testa mi scoppia…». «Sto pensando di lasciare la scuola perché sono troppo brutto», «Sto pensando di lasciare la scuola perché voi non capite, non capite in che mondo viviamo e non capite di cosa ho bisogno». Sono alcune delle dichiarazioni di ragazzi e ragazze condivise in occasione dell’incontro Qualcuno mi sente? Adolescenti tra schermo e scuola: ritiro sociale, hikikomori, isolamento, organizzato dal centro di aggregazione giovanile MaTeMù del Cies Onlus per approfondire il tema del ritiro sociale. Un viaggio illuminante in un disagio diffuso, un fenomeno che la pandemia ha solo acuito.

Sui social si incontrano soprattutto persone false

Così Davide Fant, formatore e pedagogista, responsabile dell’Anno Unico, servizio formativo per il contrasto all’abbandono scolastico, sul rapporto tra i ragazzi e il digitale. Secondo Fant, quello che serve per capire i ragazzi è una consapevolezza digitale, prima di tutto da parte nostra, per comprendere che cosa faccia soffrire di più i giovani. Spesso non riusciamo a capire, proiettiamo motivi di sofferenza che ci sembrano i più importanti e che invece non sono gli stessi per i ragazzi. Il problema principale, per loro, è che in rete, sui social, dove impera la cultura dell’immagine, si incontrano soprattutto persone false, che vogliono farsi vedere più belle. Per un adolescente, che con la propria immagine, con il proprio corpo ha un conto aperto, stare in continuazione in uno spazio-vetrina vuol dire stare male, ma deve starci, perché, uscendone, teme di perere qualcosa.  Sui social ci si sente sempre meno degli altri, si è sottoposti a un continuo giudizio negativo sulla propria vita, non si viene mai lasciati in pace. «Sono stanco di essere continuamente disturbato, dagli adulti, dai coetanei quando voglio stare solo» dice qualcuno dei ragazzi. Il digitale è il luogo del rumore e della saturazione: cosa vuol dire essere un adolescente in un mondo in cui la velocità degli stimoli è più alta della nostra capacitò di rielaborarli?

Non ci sto dentro e mi sottraggo

Gli ambienti digitali finiscono così per rafforzare un mondo iper competitivo, in cui tutti siamo quantificati, ridotti a numeri, un mondo iper rumoroso, iper saturo di stimoli, in cui le sfumature, le complessità, i lati oscuri vengono rimossi. Secondo Davide Fant siamo noi adulti a dire, per primi, ai ragazzi: «devi avere i numeri giusti. i voti giusti, devi avere tanti stimoli», magari pensando agli stimoli fuori dai social. Così gli adolescenti dicono: «io non ci sto dentro e mi sottraggo». E allora arrivano gli sfoghi, perchè i ragazzi vivono il continuo giudizio, sull’app dei vuoti di scuola e su Tik Tok con i like che funzionano allo stesso modo, continuano a numerificare. Perché le classi sono rumorose, rumorose di cose da fare, da sentire, delle voci degli insegnanti, dei compagni, dei genitori. Perché ci si sente brutti: anche trent’anni fa chi si sentiva brutto stava male a scuola, ma difficilmente la lasciava. L’aspetto fisico è qualcosa di fondamentale che determina la discesa in hikikomori. In generale, si tende ad andare in due direzioni: o ci si ritira, o si esplode. «C’è un disegno, in particolare, che ci ha colpito», spiega Fanti, «di un ragazzo che vuole dire “fuori ci sono le macerie e voi adulti ci chiedete di sorridere”».

hikikomori
Davide Fant: «C’è un disegno, in particolare, che ci ha colpito, di un ragazzo che vuole dire “fuori ci sono le macerie e voi adulti ci chiedete di sorridere”»

Creare spazi rifugio per rigenerare e rigenerarsi

Una nuova consapevolezza di tutto questo può orientare il modo in cui intervenire. È sempre Davide Fant a suggerire di creare spazi rifugio per respirare e rigenerarsi, spazi piccoli nei quali sentire di avere un potere di azione e dai quali ripartire. Spazi accoglienti e radicalmente alternativi alla società della prestazione, del successo individuale, del giudizio e della competizione, cosa che la scuola non è. «Ci sono insegnanti fantastici, ma la scuola, il sistema, mangia pure loro» commenta Fant. Allora serve creare il luogo-rifugio, dove è ammesso non sapere cosa si vuole fare, dove si può perdere tempo, dove potersi fermare, dove si può tornare a respirare, perché solo perendo tempo si può ritrovare il sentiero.  Uno spazio protetto dall’onnipresenza della misurazione, perché il numero oggi non è quello che era quando andavamo noi a scuola. Si possono creare piccoli gruppi di affinità e risonanza: gruppi che risolvono, che fanno progetti. Ma prima di tutto è fondamentale incontrarsi, risuonare insieme, sentire l’altro e se stessi. Un ragazzo ha detto «mi sento molto più libero di parlare dei miei problemi nella chat del gioco multiplayer, in Fortnite, che non nel mio gruppo di amici, perché con loro mi sento giudicato, invece qui c’è un spazio in penombra». La chiave è questa: vanno creati quindi degli spazi in penombra.

Litigare con il mondo, o con il proprio corpo

Arianna Terrinoni è una neuropsichiatra infantile, ed è dirigente medico del reparto emergenze psichiatriche adolescenti al Policlinico Umberto I di Roma. Lavora al pronto soccorso psichiatrico e vede ogni giorno storie di tutti i tipi, spesso drammatiche. Ha deciso di raccontare, durante l’incontro, due storie di adolescenti, ovviamente dai nomi inventati, Anna e Marco. Quella di Marco è una storia esemplare: un ragazzo che, al quinto anno della scuola primaria, decide di litigare con il mondo, si chiude in casa e inizia a dettare regole che diventano sempre più rigide. Dove c’è una possibilità che un po’ di aria nuova possa entrare dentro la stanza, viene mandata fuori: è così per amici e parenti che ci provano, e anche con lo psicoterapeuta e l’insegnante. Marco crea una staticità, ma tutto diventa sempre più in penombra e il lato oscuro comincia a mangiare l’ossigeno di Marco, che decide di provare a morire, game over, non riuscire più a stare in nessun luogo. Così una notte di gennaio tenta il suicidio. Anna pensa continuamente alla zip dei jeans, immagina che si sarebbe spalancata all’improvviso o di dimenticarla aperta. Sente il rumore delle risate di tutti, nel corridoio, anche quelle dei professori. Poi passa alle lamette, al farsi male, perché l’unico modo per riuscire a soppiantare questi pensieri è trasportarli sul corpo, su cui scaricare questo senso di nullità. Anna e Marco sono finiti entrambi dentro una corsia di ospedale, nel reparto adolescenti. In questi ultimi anni gli accessi degli adolescenti al reparto psichiatrico sono sempre cresciuti, a parte il 2020: 418 nel 2018, 504 nel 2019, 328 nel 2020, 639 nel 2021. E alcune persone arrivano anche da sole, senza genitori.

L’instabilità delle figure adulte

«Sono polemica sull’idea che il Covid abbia cambiato tutto» ci tiene a precisare Arianna Terrinoni.  «Questo avviene da moltissimi anni, avviene una modificazione biologica. Ci sono fattori ambientali che possono frammentare la vita degli adolescenti, come il progresso tecnologico, come l’accettazione di sé». È un discorso che parte da lontano, dalla grande recessione del 2008, dai grandi cambiamenti che impattano sula sicurezza economica. Gli adolescenti, che noi vediamo assorbiti nel mondo virtuale, non sono insensibili e scollegati da quello che accade. In loro esiste una pelle senza una scorza, un sentire che è amplificato, esposto. Gli adolescenti fanno i conti con un mondo in piena e disinvolta competizione, dove ognuno fa parte di un numero; si respira instabilità, precarietà, senso di vuoto del  mondo adulto, che si riverbera su quello dei ragazzi. «Il più grande malinteso è che il Covid renda le persone malate di mente. Credo che il Covid abbia smascherato le persone che avevano vulnerabilità sottostanti». Lo scrive John Walkup, direttore del dipartimento di psichiatria e salute comportamentale del Lurie Children’ s Hospital di Chicago.

Scuola, famiglia ed extra-scuola devono parlarsi

A chi lavora in questo ambiente da 25 anni capita di veder cambiare tanto i ragazzi, gli educatori, gli insegnanti, i genitori. Ma mai come in questi due anni. Quello che è cambiato non sono tanto i problemi dei ragazzi, ma i sintomi con i quali questo malessere si manifesta. A spiegarlo è Valeria Lucatello, psicoterapeuta familiare, Giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Roma. Anche secondo lei si nota una sorta di dicotomia: i ragazzi o sono apatici, tristi, non vengono più a scuola, oppure vengono e non si sopportano, si odiano, si trattano male, si menano. Per andare a leggere questa dinamica non si può andare in un luogo solo: solo la scuola, solo la famiglia, solo lgli ambienti extra scolastici il Terzo Settore. Scuola, famiglia ed extra scuola sono tre luoghi che si incontrano, si scontrano, si sovrappongono. Se questi tre pezzi non si parlano, non si confrontano per risolvere le situazioni di chi sta al centro di tutto, non c’è verso di andare nella stessa direzione. Serve allora una figura che faccia da collante: un genitore non deve essere solo genitore, ma deve dialogare con la scuola, cosi l’insegnante deve saper dialogare con i genitori, e l’extra scuola è il momento del divertimento, ma se non è collegato con quello che succede al mattino non è facile. Gli interventi sui ragazzi e sui bambini sono fondamentali, ma se non interveniamo anche sugli adulti, sul crollo della figura adulta, siamo solo a metà dell’opera.

Lavorare sull’apprendimento ma anche sulla relazione

La scuola è chiaramente al centro di tutto e il primo luogo della scuola è la classe, un microcosmo in cui stanno insieme tante diversità. Come fa notare Valeria Lucatello, serve che gli insegnanti riescano a mantenere alta l’attenzione, che lavorino sull’autostima dei ragazzi e non sullo sminuire, che sappiano valorizzarli, che propongano attività che non siano solo quelle frontali, sugli apprendimenti, ma anche sulla relazione. Sono due cose che possono andare insieme, in base a come viene fatta la didattica. Alcuni insegnanti l’hanno imparato, altri hanno educatori che lavorano insieme a loro e creano occasioni per coinvolgere i ragazzi. Che così restano meno a casa.

Ci stanno dicendo: un mondo così non ci piace

Quello che serve è allora una visione politico-educativa condivisa, che serva a plasmare gli ambienti educativi formali e informali. Non c’è altro sistema di creare quegli spazi di rifugio e di respiro. Ci sono dei tentativi sporadici, ma vanno sistematizzati. C’è poi il discorso della valutazione, che non si può evitare, «ma si deve imparare anche a prendere un 4 senza morire» come spiega Valeria Lucatello. «Ma il 4 è solo una piccola parte della storia» ragiona Davide Fant, «gli esseri umani hanno sempre appreso senza i voti. Un conto era il 4 per me in un altro mondo, un conto è il 4 oggi. Un conto è il 4 e lo sguardo dell’insegnante». «I ragazzi stanno portando dei temi epocali» continua. «A scuola i ragazzi vengono umiliati, gli si fanno battutine, è sempre andata così. I ragazzi stanno dicendo: no, basta, queste cose non le vogliamo più; stanno dicendo cose grosse, non solo il 4. In loro c’è una parte disfunzionale, prendo il 4 e non lo so sostenere. Ma c’è anche una parte adattiva: il mondo è cambiato e loro per reagire al mondo fanno queste cose. E forse c’è una parte di visione. Forse ci stanno dicendo: guardate, un mondo così non ci piace, ne vogliamo uno diverso. Solo che siamo in un momento in cui non si cono le parole per dirlo, non è tematizzato. È per questo che dobbiamo metterci in ascolto».

 

 

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