ALBINATI: VI SPIEGO DOV’È IL VERO SUCCESSO DEL VOLONTARIATO
Fare i conti con il fallimento non è facile, eppure il disincanto aiuta a lavorare nelle situazioni più difficili. E il successo è una briciola...
11 Luglio 2016
Fallimento e volontariato. Edoardo Albinati, vincitore del Premio Strega 2016 con il libro “La scuola cattolica“, insegnante in carcere e ospite dell’ultima assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, parla con “Reti Solidali” di Questo stretto legame. «Diffido delle persone convinte di poter cambiare tutto, perché più dall’alto si cade e più pesante è il tonfo», dice, ma rassicura: «Già andare in pareggio, non peggiorare il mondo, sarebbe un risultato straordinario».
All’ultima assemblea della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia ha parlato dello stretto legame che esiste tra fallimento e volontariato. Ci spieghi meglio…
«Nel caso del volontariato in carcere il fallimento è in agguato su due lati. Il primo è legato alle persone per cui si lavora, i detenuti, che se sono reclusi è perché hanno avuto una caduta, un incidente di percorso, un errore di fondo nella loro vita. Il fallimento non ha neanche bisogno di essere spiegato: è in atto. Quello invece dal lato dei volontari è legato all’incertezza dei risultati del proprio operare. Questo andrebbe messo in conto fin dall’inizio, e le persone più avvedute lo fanno. È uno strano caso quello del volontariato: si nutre di un’illusione, ma al tempo stesso deve essere sufficientemente disilluso o disincantato per poter operare sul serio in situazioni molto spesso difficili o emergenziali, dove uno spirito di ottimismo puro e cieco provocherebbe più guai di quante buone cose potrebbe combinare».
Quindi è più una premessa necessaria per evitare illusioni o è davvero inevitabile?
«Si può vedere da due punti di vista. Uno meramente statistico: se lo misuriamo con i numeri, il fallimento non è inevitabile, ma è più che probabile.
Lo mostra l’alta recidiva dei reati commessi: cosa sono riuscito a cambiare della vita delle persone se poi tornano a delinquere? Poi c’è invece il fallimento dell’ideale stesso di una riabilitazione, che se viene posto troppo in alto lo si manca per forza. Diffido delle persone convinte di poter cambiare tutto, perché più dall’alto si cade e più pesante è il tonfo. L’incertezza è un dato di partenza, ma è anche una scommessa positiva, perché è proprio nell’interstizio di questa incertezza che poi si riescono a fare le cose. La pienezza è impossibile nella vita e in qualsiasi lavoro, in quella dei volontari lo è ancora di meno. Occorre la piena consapevolezza che anche un briciolo di risultato è uno intero e non è invece un aver mancato tutto il resto».
Ridimensionare le aspettative. Ma quale motivazione allora può spingere il volontario a impegnarsi tanto? Perché lo facciamo?
«Perché vogliamo spendere noi stessi. Sono cose che si fanno a perdere se stessi e in parte anche contro se stessi. Non è calcolabile in modo utilitaristico. Faccio qualcosa e magari 9 obiettivi su 10 li manco, ciò non toglie che l’energia è stata impiegata, il tentativo è stato fatto e 1 ostacolo su 10 è stato superato. Già andare in pareggio – non peggiorare il mondo – sarebbe un risultato straordinario. Trovo più idealistico e nobile questo atteggiamento rispetto a quello, invece, che vorrebbe avere tutto e se non raggiunge questo tutto poi rimane frustrato».
Non si rischia una spirale di frustrazione? Come se ne esce?
«Non bisogna uscirne, bisogna starci dentro e viverla totalmente dall’interno. Apprezzo moltissimo il lavoro dei volontari. Io ho uno stipendio statale per fare l’insegnante e quindi potrei guardare anche un occhio critico queste persone il cui lavoro è reso gratuitamente. Ma nella gratuità c’è il massimo spreco inteso come dispendio di sé. La generosità è spendere se stessi senza avere nulla in cambio, se no non è più generosità. Senza provare compiacimento od orgoglio nell’atto di darsi, se no siamo d’accapo: è quella la ricompensa che uno cerca e allora tutta la nobiltà dell’investimento si perde».
Come diceva lei stesso, i detenuti conoscono bene il fallimento. Quale insegnamento trasmettere?
«C’è un primo aspetto terra terra: è stato commesso un errore e questo ha condotto a delle conseguenze pessime, non solo per loro, che sarebbero anche pronti ad accettarle, ma anche per le vittime dei loro reati e per i loro cari e i loro figli. Poi c’è anche il fatto di avere seguito, spesso in modo pedissequo, senza minimamente metterlo in discussione, un percorso che era un po’ segnato per loro. È il caso di tutti quei detenuti che vengono da ambienti già criminali e criminogeni, dove non diventare delinquenti è quasi impossibile. È più difficile riuscire a rompere questa continuità esistenziale che era segnata fin dall’inizio».
Ma possibile?
«È sempre possibile farlo, per chi come me insegna, con le armi della cultura, che mostra la possibilità, sempre presente, di un destino e un percorso diverso: se non è stato fino ad adesso, forse lo sarà in un’altra parte della vita.
Però sempre a partire dalla consapevolezza che se volevano diventare ricchi, fare i soldi e avere belle macchine, e non ci sono riusciti, o ci sono riusciti e poi sono finiti in galera, allora devono cessare di desiderare quello che non è possibile desiderare e non considerare questo come un fallimento. Prendiamo per esempio il lavoro: molti miei studenti detenuti, in realtà, il lavoro lo hanno schivato e schifato. Bisogna mostrare che una persona che lavora, anche se porta pochi soldi a casa, non è un fallito. Ho avuto molti detenuti giovani che dicevano: “Io non volevo fare la fine di mio padre che ha lavorato tutta la vita e non c’ha una lira”. Consideravano le persone oneste come dei falliti. Bisogna anche rovesciare questo punto di vista, io gli dicevo: “E tu, che stai tre anni qua dentro, ti sembra di aver fatto un bel risultato?”. Bisogna dirlo in modo crudo, diretto ed esplicito».
Si rischia l’effetto del gioco d’azzardo? Sento di aver perso, allora rilancio e riperdo e così via, e dunque cado in un vortice di fallimento continuo e sempre più profondo?
«Il Freud dell’”Al di là del principio di piacere” ci mostra chiaramente che noi dalle esperienze negative non sempre siamo allontanati, anzi tendiamo morbosamente a replicarle, quindi più affondiamo e più ci piace affondare. Più falliamo e più insistiamo nel nostro fallimento, anche perché cerchiamo di dimostrare che non è tale oppure finiamo per provare piacere nel fallire. Allora è importante rompere questo circolo vizioso, e lo dico per tutti noi, non solo per i detenuti. È compito dei volontari, degli insegnanti e dei detenuti per primi cercare di uscire da questa spirale viziosa. Quando si è totalmente derelitti, quando non si ha più alcuna fiducia in se stessi e ci si considera vocati al fallimento, c’è una specie di voluttà di perdersi: che me ne frega, tanto ormai sono destinato a questo e al diavolo tutto. Rompere questo circolo è un’impresa».
E quindi è un successo.
«Le poche volte che ci si riesce è un successo enorme. Ma spesso è il detenuto che lo compie da solo, ha solo bisogno di qualcuno che lo stia a guardare mentre lo fa. Quindi forse anche il nostro compito non è nient’altro che accompagnarlo».
Allora possiamo dire che il successo è anche interrompere una spirale di fallimento. Magari nessuno se ne accorgerà, ma la nostra vita acquisirà lì la dimensione del successo.
«Diventerà una vita che merita di essere vissuta».