ASCANIO CELESTINI: RACCONTO LE PERIFERIE PRIMA DEL BOTTO
"Viva la sposa" è nato tra la gente e i palazzi, nei bar. Perchè la realtà sta al telegiornale come il calcio all’album delle figurine.
22 Ottobre 2015
Nicola è sempre seduto a un bar. Dice che vuole smettere di bere, ma non smette mai. E stando al bar incontra tante persone. Ascolta le loro storie. C’è un piccolo delinquente che tenta di truffare la assicurazioni buttandosi sotto ai motorini. C’è una prostituta che ha paura dei cani, e ha un figlio da lasciare a qualcuno mentre lavora. C’è la ragazza che dice di partire per la Spagna, ma non parte mai. Su tutto questo, per la strada o in tv, passa una sposa americana che sta girando l’Italia in abito bianco. Una visione consolatoria e di speranza, forse. Storie comuni, storie di periferia. Ascanio Celestini ha scritto “Viva la sposa” ascoltando le storie nei bar del Quadraro, di Ciampino, di Morena. Partendo dal basso. E girando nel quartiere dove sono nate, al Quadraro, quartiere romano con una sua “grande bellezza”, lontanissima dai palazzi barocchi del centro, eppure piena di storia. E di storie. Abbiamo parlato con Ascanio Celestini di questo. E di alcuni dei grandi temi che ha trattato nelle sue opere. “Viva la sposa” è nelle sale dal 22 ottobre.
Quanto è importante che un film come questo nasca sul territorio, nei bar del Quadraro, di Morena, di Ciampino? Che storie si trovano in questi luoghi?
«Forse sono le storie che troviamo in tante altre periferie. Luoghi che non per forza si trovano fuori dai centri storici, ma forse soltanto fuori dal centro del mirino dell’informazione, della narrazione globale alla quale siamo abituati ad assistere. Della periferia se ne parla solo quando esplode. Io vorrei raccontare quello che succede prima del botto».
E quanto è stato importante girare nei luoghi dove sono nate le storie, lontani dalla “grande bellezza” di Roma, eppure a loro modo bellissimi, carichi di vita? Come hanno partecipato gli abitanti?
«Gli abitanti erano incuriositi. Sono abituati al cinema. Alcuni di loro ci hanno lavorato come generici, qualcuno ha avuto ruoli di responsabilità. Gli stabilimenti di Cinecittà si trovano a poche centinaia di metri. Ma erano incuriositi lo stesso. Ma quando hanno capito che non giravamo tra quei palazzi per raccontare una storia qualunque, che ci eravamo venuti proprio per il valore che il colore di quei muri, la geometria di quelle prospettive sapevano raccontare era come se si sentissero dire che a Roma non c’è solo San Pietro, ma anche il bellissimo condominio di Selinunte numero 49.
Per quanto riguarda la bellezza io non credo che la grandiosità delle chiese barocche o del Colosseo renda grandiosi anche quelli che ci abitano davanti. E a me interessa raccontare l’essere umano e se riesce a umanizzare anche i mattoni della casa in cui vive: meglio!»
Viste da lei che ci vive, quali sono le peculiarità di quartieri come il Quadraro e Cinecittà?
«Non è facile dire cosa sia Cinecittà o il Quadraro. Chi vive a via dei Quintili o a via dei Laterensi si sente quadrarolo. In fondo a via dei Consoli la gente vive a Don Bosco e oltre via degli Angeli gli abitanti sono di Tor Pignattara. Eppure qualcuno che viene da fuori potrebbe dire che si tratta sempre di Cinecittà.
Vista da fuori è come una matrioska che appare coma una sola bambola, ma dentro ce ne sono tante che per il distratto non esistono. I luoghi sono soltanto spazi da attraversare per arrivare da un’altra parte o, nel migliore dei casi, palazzi e monumenti che fanno stupire i turisti. Ma il luogo nel quale si vive ha due peculiarità in più: il tempo e le storie. Vivendo nel tempo, lo spazio si riempie di accadimenti. Non è più solo un luogo, ma anche le cose che in quel luogo accadono. E quando si passa oltre gli accadimenti, questi possono essere raccontati. I luoghi sono libri pieni di pagine bianche che col tempo si riempiono di parole e disegni».
Nel mondo che racconta c’è una piccola e sincera solidarietà tra gli ultimi, i soli. È una sua visione, da autore, o davvero questa solidarietà è possibile in quartieri come questi, lontani dai “Palazzi”? Ne ha viste tante di storie di questo tipo?
«C’è violenza e solidarietà. A volte le due convivono. Ovviamente c’è anche la solitudine e la distrazione. È facile uscire di casa e passeggiare incontrando persone quando abiti a piazza Navona o anche a piazza Vittorio. Nelle periferie dove le piazze sono parcheggi e alla chiusura dei negozi sembra che una saracinesca cali su tutto… è un po’ più difficile creare relazioni. Ma dove ci sono gli esseri umani c’è sempre una possibilità per crearne. Ci vuole coraggio e curiosità».
Uno degli aspetti della solidarietà di cui parliamo è anche il formarsi di famiglie non di sangue, ma di affetti. Crede che sia una risposta ad alcuni dei problemi di oggi?
«In generale la famiglia è il nucleo fondamentale della nostra società. Lo è nella maggior parte dei casi. Dobbiamo però riconoscere che non è possibile riconoscerla solo nella sua forma standardizzata e ipocritamente venduta come “naturale”. La famiglia oggi ha bisogno di essere riconosciuta in tutte le sue possibili forme».
Nel suo racconto la figura dell’ubriacone ha quasi una sua sacralità. È un po’ una sorta di custode del quartiere, un sostegno per tutti, una memoria storica della gente che ci passa?
«L’ubriaco è attratto dal bar più di chiunque altro. E nel bar, soprattutto quando il resto del quartiere attorno si spegne, è il primo che resterebbe per un ultimo bicchiere e poi per un altro ultimo ancora, per un altro… come per allungare il tempo».
Come mai ha scelto di ambientare alcune delle scene della sposa a L’Aquila? Forse perché il terremoto del 2009 è una delle tante rimozioni del nostro Paese? A sei anni di distanza, quali crede siano le responsabilità dei media e della politica?
«I media giungono in un posto quando accade qualcosa di eclatante, la raccontano e poi se ne vanno via. Raccontato così il fatto è decontestualizzato. I media dovrebbero raccontare meno e raccontarlo meglio. È un po’ come accade con le figurine. Il telegiornale mette in fila francobolli di notizie che raccontano pezzetti di verità. La realtà sta al telegiornale come il calcio all’album delle figurine.
La politica sfrutta questa semplificazione e spesso si pone nei confronti dell’informazione e della realtà come il giornalaio che vende l’album al bambino e le figurine nelle bustine».
In uno dei suoi film ha detto “Parole sante” a proposito del mondo del lavoro. Crede che la nuova riforma del lavoro possa portare a qualche miglioramento, o il precariato è una di quelle congiunture destinate a non mutare per molto tempo?
«In “Parole sante” ho fatto parlare dei lavoratori che si sono autoorganizzati e hanno compreso che il proprio problema dovevano incominciare a risolverselo da soli. L’idea di cambiare una legge ingiusta ci pone davanti ad una salita difficilmente percorribile. La lotta importante è nel fare in modo che la legge non venga nemmeno pensata. E questo è possibile se i lavoratori dimostrano di non essere docili e addomesticabili. Lo devono dimostrare non quando vengono attaccati, ma per non essere attaccati. Penso al movimento in Val Susa. Seppure il governo e i privati riuscissero nel loro intento, sarebbe l’ultima volta che tenteranno di contrapporsi a qual territorio che ha dimostrato di non essere affatto docile».
Ne “La pecora nera” ha raccontato in modo magnifico la malattia mentale e il mondo dell’ospedale psichiatrico. Crede che in Italia si stia riuscendo ad andare oltre gli ospedali, o la soluzione è ancora lontana?
«In Italia si è fatto molto. Molto più che in altri paesi. La legge 180 del 1978 è stata una rivoluzione. Ovviamente chiudere i manicomi non significa superare il disagio mentale. Ma nei manicomi i pazienti non erano curati, ma sedati e archiviati. Risvegliarli è stato un atto di grande umanità e responsabilità. Tenerli chiusi dietro un muro crea un apparente senso di sicurezza, ma è un modo nazista di relazionarsi tra esseri umani».