AUTORIFORMA DEL TERZO SETTORE: È QUESTO IL TEMPO GIUSTO
La legge delega di riforma è generica: in vista dei decreti attuativi il settore deve chiedersi cosa vuole diventare. L'opinione di Antonio Fici
di Redazione
11 Luglio 2016
C’è bisogno di un’autoriforma del Terzo Settore, per affrontare meglio le opportunità e i limiti della legge delega. L’intervento di Antonio Fici, docente di Diritto privato all’Università del Molise ad un recente corso di formazione per giornalisti organizzato dal Cesv (il testo non è stato rivisto dall’autore).
Cercherò di indicare quelli che mi sembrano i principi fondamentali della riforma (legge 106/2016, “Delega al Governo per la riforma del Terzo Settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del Servizio Civile Universale), al fine di poter delineare il futuro scenario, fermo restando, che solo quando scadranno i 12 mesi per l’esercizio della delega, veramente potremo capire qual è l’impatto di questa riforma sul Terzo settore. Quindi, qui possiamo soltanto indicare alcuni scenari.
Voglio prima fare due appunti al mondo del Terzo settore. Il primo è di avere sempre un po’ sottovalutato il dato normativo: si è affidato troppo ad analisi che sono fondamentali, che sono alla base del dato normativo ma che non lo sostituiscono (analisi economiche, filosofiche, sociologiche, storiche ed altro). Ma quando il Terzo settore deve competere, come in questo caso, non soltanto con quello pubblico ma anche con quello lucrativo, si scopre indifeso. E il settore lucrativo – cioè quello di chi compie un’attività per una finalità di profitto – è tanto presente e si è manifestato attaccando il terzo settore. Ora quindi il dato normativo non si può più sottovalutare e bisogna investire di più su questo fronte.
L’autoriforma del Terzo settore
Il secondo punto – a mo’ di pungolo – è relativo alla capacità di autoriforma del Terzo settore. Faccio un esempio che è tratto da un mondo, oggi, vicino ma diverso dal Terzo settore: quelle delle cooperative di credito, cioè delle banche cooperative che sono state investite da una riforma che le ha modificate. Bene, quella riforma è stata in un certo senso obbligata, è stata imposta, però si è attuata come autoriforma.
Cioè arriva un momento in cui il Terzo settore – questa pletora di soggetti tutti diversi, ma con finalità simili – deve interrogarsi su qual è la propria prospettiva di sviluppo. Altrimenti, se non ti autoriformi, ti riformano dall’esterno, con un impatto che può essere devastante su di te. Quindi, i due dati ovviamente si completano, ma è questo l’investimento che andrebbe fatto nei prossimi anni per superare un approccio emergenziale (“oddio, c’è una norma pericolosa per me, cosa devo fare per parare quella norma?”?)
Detto questo, per quanto riguarda più nel dettaglio il testo attuale, la riforma è molto ampia. Tanto è vero, che quando nel 2001-2003 fu attuata la riforma del diritto societario, c’erano quaranta e più tra i migliori docenti universitari di diritto commerciale, una segreteria composta da circa venti-ventidue magistrati; insomma c’era un gruppo di lavoro sulla riforma del diritto societario che constava di circa duecento-trecento articoli del codice civile, che riguardavano alcuni tipi organizzativi particolari (spa, srl e cooperative) di grande valore e impatto. E qui stiamo riformando anche una realtà più ampia del Terzo settore ma non si sa con che modalità: è così ampia la legge delega che potrà accadere tutto e il contrario di tutto. E tutto questo, ripeto, incontra un mondo del terzo settore impreparato a dialogare col legislatore, che è a sua volta impreparato in materia.
Il libro I del Codice Civile
È un Terzo settore frastagliato: questa riforma dovrebbe a mio avviso essere l‘occasione per creare unità e compattezza tra tutti quei soggetti che sono al suo interno, perché c’è una varietà tale – per attività, settori, funzioni e livelli – che è veramente difficile fare un ragionamento unico. La legge è ampia, non soltanto perché va a toccare tutti i soggetti del terzo settore tranne qualcuno, per esempio le fondazioni bancarie, ma perché va a toccare anche il primo libro del Codice civile.
Cioè, uno dei punti della riforma – che non risalta perché coperto da un titolo che parla di Terzo settore – è quello di riformare il diritto (artt. 14 e seguenti del cod.civ.) delle associazioni e delle fondazioni, sotto alcuni profili. Quindi la riforma non toccherà soltanto il Terzo settore, ma tutte le associazioni e le fondazioni. E quindi non è neanche vero, come si dice nel testo, che la riforma non tocca e partiti politici e non tocca le fondazioni bancarie; non è vero, perché se tu vai a riformare il diritto delle associazioni e delle fondazioni, tocchi tutti: da Confindustria, che è un’associazione, anche se non è del Terzo settore, a un partito politico, anche se naturalmente molti di questi soggetti hanno delle leggi speciali per loro.
Le fondazioni bancarie hanno un decreto del ’99 dedicato a esse, i partiti politici hanno alcune norme particolari, anche di privilegio, che si trovano in altri contesti normativi. Quindi è una riforma ampia, non soltanto perché tocca il terzo settore, ma anche perché tocca associazioni e fondazioni del libro I del codice civile, sotto alcuni profili fondamentali: per esempio, il riconoscimento della personalità giuridica dovrebbe cambiare sotto il fronte della trasparenza (termine questo che ricorre più volte nel testo), ma anche delle modalità di svolgimento dell’attività d’impresa da parte di associazioni e fondazioni.
Un Codice del Terzo settore?
Inoltre, l’intenzione dichiarata è di fare un codice del Terzo settore: espressione che forse è stata usata per l’impatto mediatico. In realtà questo poteva benissimo essere un testo unico del Terzo settore, qualcosa che mettesse insieme i vari provvedimenti e li coordinasse, ma la parola codice è più prestigiosa, fa apparire chi promuove la redazione del codice come un soggetto più meritevole di lodi, rispetto a chi promuove un semplice testo unico. Tanto è vero che poi, se si va a vedere cosa andrà a fare questo codice, si leggono le parole “riordino, revisione organica, raccolta, coordinamento”: non si dice “andiamo a stravolgere l’esistente”…
Magari riordinando innoverò leggermente, ma non è detto: posso non sostituire il mio guardaroba, ma ricomporlo in un sistema in cui i colori seguono uno stile o hanno tonalità più ordinate.
Quindi che cosa cambierà? Tutto, niente, io non lo so. Se, per esempio, guardo alla disciplina dell’impresa sociale, potrebbe non cambiare niente rispetto al decreto 155/2006 vigente. Quel decreto dovrebbe scomparire, anche se non è chiaro cosa succederà, ed essere sostituito dal titolo III o IV, capo I o II, sezione I o II del codice del Terzo settore, artt. 40 e seguenti dedicati all’impresa sociale.
In sostanza, è quello più o meno che è successo quando sono state raccolte, per fare un esempio di un altro settore, le varie disposizioni in materia di consumatore: si è creato un Codice del consumo, nel 2005, prendendo tutti i vari decreti legislativi sul tema e mettendoli insieme in un Codice del consumatore, che ha una portata innovativa non così ampia come la parola “codice” vorrebbe indicare a prima vista. Quindi non si tratta di un Codice nel senso vero e proprio del termine, ma è il tipo di codice che è stato adottato dal legislatore italiano negli ultimi anni (nelle assicurazioni, nel turismo, nel consumo).
Vedremo cosa capiterà riguardo all’impresa sociale.
Il testo prevede il tetto della non distribuzione di utili, ma c’era già. La novità è che le cooperative sociali, che ora per essere imprese sociali devono rispettare due requisiti, lo saranno di diritto. Il che non vuol dire, ripeto, che poi in sede di attuazione le cose non potranno essere diverse, che non si sfrutti questa occasione per inserire norme veramente innovative! Ma, attualmente, dai principi e criteri non è detto che sia così.
Se guardiamo ai Centri di Servizio per il Volontariato, c’è o ci potrebbe essere qualche novità in più, tanto è vero che questo mondo si è mosso per cercare di parare alcuni attacchi, perché c’erano i soldi fra i soldi delle fondazioni bancarie e dove ci sono i soldi c’è l’attenzione di tutti.
È importante naturalmente riconoscere la categoria che chiamiamo Terzo settore: questa è un’occasione che deve essere sfruttata. C’era già in alcuni interventi normativi precedenti, sporadici e isolati, la parola “Terzo settore”, come categoria di enti, ma adesso c’è un Codice del Terzo settore e ci sarà un registro unico del Terzo settore. È un’occasione unica per diventare unitari, non soltanto dal punto di vista delle categorie giuridiche e normative, ma anche dal punto di vista concreto e reale. Con tutti i suoi difetti, il mondo della cooperazione, inclusa quella sociale, ma non soltanto essa, è molto più unitario, tanto che esprime anche ministri e parlamentari.
Dal Terzo settore all’economia sociale
Il legislatore può aiutare con una categoria normativa, ma occorre che il Terzo settore si attivi veramente per diventare unitario. Potrebbe essere d’aiuto la categoria dell’economia sociale: in Europa ormai non si parla più di Terzo settore, ma di economia sociale. È questa l’etichetta che si usa nel dibattito a livello europeo, ma anche in alcuni ordinamenti giuridici, ad esempio quelli di Portogallo, Spagna e Francia. Legge del 2011 in Spagna, del 2014 in Portogallo, del 2015 in Francia, documenti vari dell’UE…: la formula e la categoria è quella di economia sociale, non più di Terzo settore.
Cosa cambia e che rapporto c’è? Sembrerebbe come se il legislatore italiano, che pure nel ’91 è stato innovatore, quando ha creato le cooperative sociali, stia un po’ perdendo il passo. La formula nuova di economia sociale è ancora più interessante, perché raggruppa più o meno, tutti i soggetti che rientrano nel Terzo settore, quindi sia gli enti erogativi, che agiscono attraverso prestazioni gratuite, sia gli enti imprenditoriali senza scopo di lucro e con finalità sociali. E raggruppa anche le società cooperative: non solo le sociali, cioè le cooperative con l’anima d’interesse generale, ma anche quelle ordinarie: da quelle di lavoro, alle bancarie, alle agricole, a quelle per l’abitazione e quant’altro.
Questo fronte, che si distingue sia dal pubblico sia dall’economia capitalistica a scopo di lucro, ha non solo un nome diverso, ma anche una sostanza e una forza enormemente diverse: una categoria rilevante dal punto di vista degli ideali, dei valori, dei principi e quant’altro.
Trasparenza e bilanci
Tra le parole chiave, che appaiono nel testo della riforma, ci sono “trasparenza” e “pubblicazione dei bilanci”. Forse l’unico punto in cui si parla di comunicazione è quello che riguarda la pubblicazione dei bilanci e delle informazioni sui siti internet degli enti. Si vuole far sì che i soggetti del Terzo settore siano effettivamente tali attraverso un’opera di comunicazione e trasparenza su cosa sono, cosa che fanno e come destinano le proprie risorse.
A questo principio di trasparenza si accoppia il principio del controllo: l’idea di riformare la materia dei controlli sugli enti del Terzo settore emerge in più punti della riforma. Il principio di partecipazione e coinvolgimento di tutti gli associati e il principio di non lucratività che emerge, è un principio-chiave, derogato in parte soltanto per l’anima imprenditoriale del Terzo settore laddove è permessa, per alcune imprese sociali e non per tutte, la possibilità di remunerare il capitale conferito dai soci in misura non superiore attualmente al 2-2,5% in più del rendimento massimo dei buoni postali fruttiferi, che è quello previsto dall’art. 2514 del codice civile.
Per fare rete
Ora finisco con un modello, che non so se si possa attuare in sede di questa riforma ma che il terzo settore potrebbe prendere come fonte d’ispirazione: il modello cooperativo, che è un insieme di tante unità unite in rete, che forma un sistema d’imprese, più o meno grandi. Questo è un aspetto importante: averne più o meno grandi nello stesso sistema, perché c’è un problema di assistenza reciproca tra le imprese più forti rispetto alle più deboli.
È un sistema, quello cooperativo, che non soltanto crea rete a livello di rappresentanza politica, istituzionale, ma crea rete anche a livello di servizi e a di promozione e sostegno. Se tutte le organizzazioni del Terzo settore destinassero lo 0,01% dei loro introiti a uno o più enti che rappresentano la rete, che a loro volta promuovessero questo mondo e anche lo controllassero come fanno un po’ le cooperative, non ci sarebbe bisogno di una Fondazione Italia Sociale, perché gli enti si creerebbero la propria struttura di sostegno, né di controllori esterni, perché gli enti si creerebbero una struttura di autocontrollo.
In parte nella riforma questo c’è già, ma chissà se questo modello (autocontrollo, autonormazione, autoproduzione normativa, autofinanziamento, autosostegno), il Terzo settore non sia capace di crearselo da solo, prima di essere toccato da riforme esterne che vanno in una direzione precisa. Quella, a mio avviso, di invadere il settore, non solo di contenerlo, ma anche di invaderlo.
Le società benefit
Aggiungo soltanto un accenno alle società benefit: alla fine dello scorso anno il tentativo di svincolare l’impresa sociale dai limiti della distribuzione degli utili, che appunto è stato parato, si è tradotto nella creazione di un altro soggetto giuridico che si chiamano società benefit, anche se “benefit” non è un vocabolo della lingua italiana. Si tratta di società che, oltre a remunerare il capitale e a distribuire utili, si occupano anche di svolgere attività di utilità sociale oppure sono a sostegno delle persone o dell’ambiente e quant’altro.
Questo è un altro elemento che fa capire come il mondo for profit è interessato a questo settore e come c’è il rischio di una confusione enorme tra imprese sociali, società benefit e quant’altro.
Le foto in questa pagina sono di Maria Topputo