IL “SOSPESO”: PUÒ AIUTARE DAVVERO O È SOLO FOLKLORE?
Nata dalla tradizione napoletana, l’idea di lasciare un caffè o un pasto pagato a chi ne ha bisogno si va diffondendo in tutta Italia. Può crescere, ma serve un progetto culturale che la renda sistema
10 Maggio 2017
Il caffè sospeso è un’antica tradizione napoletana. Consiste nel lasciare un caffè pagato per qualcuno che verrà al bar dopo di noi, e che non può permetterselo. Oggi questa tradizione è tornata in qualche modo in voga, riletta e rivista alla luce dei nostri tempi, in cui la povertà è un problema per molte persone. Le iniziative che sono nate sono molte.
Dal caffè sospeso ad un intero paese sospeso
L’Esercito della Salvezza ha rilanciato a Roma l’idea del “cappuccino sospeso”, una ristoro caldo per chi non se lo può permettere, nel quartiere di San Lorenzo, in quattro locali storici che hanno aderito all’iniziativa, e poi anche a Tor Bella Monaca, con la speranza che l’idea si diffonda in tutta Roma. Intanto c’è chi ha preso spunto da questa tradizione per lanciare l’idea di un “pasto sospeso”: ci hanno pensato Baobab Experience e Casetta Rossa sempre a Roma, nel quartiere di Garbatella, dove lo scorso febbraio, con 5 euro, si poteva lasciare un pasto pagato per un alcuni migranti, soprattutto somali ed eritrei, in transito a Roma ed accolti dai volontari di Baobab Experience e da alcune strutture ricettive del Comune di Roma, come il centro della Croce Rossa di via del Frantoio. A cucinare c’erano due chef d’eccezione: Chef Rubio ed Erri De Luca.
I primi a lasciare un contributo sono stati gli abitanti del quartiere. Ma iniziative come queste si stanno diffondendo in tutta Italia. C’è addirittura un paese dove tutto è “sospeso”. È Rescaldina, centro di 14mila anime nei dintorni di Milano, dove a questa iniziativa aderiscono cinque esercizi molto diversi fra loro: ci sono due ristoranti, ma anche due macellerie, e addirittura un negozio di abbigliamento, in modo che chi ne ha bisogno possa usufruire anche di un capo di vestiario. L’iniziativa è del Comune (è destinata a famiglie seguite dai servizi sociali) che punta ad allargare la rete dei negozi aderenti.
A Milano c’è Kaputziner Platz, ottimo ristorante di specialità bavaresi, che è solito raccogliere le offerte dei clienti e convertirle in buoni pasto (l’iniziativa, “Cena Sospesa”, è della Caritas Ambrosiana): ma in occasione del cenone di Capodanno è stato lo staff del locale ad offrire una cena a 37 persone, che si sono sedute a tavola insieme agli altri clienti e hanno consumato il loro stesso menù.
La scorsa estate Salvamamme ha lanciato il “Gelato sospeso 2.0”, regalando un gelato a tanti bambini. Mentre a Foggia un panificio, di sua iniziativa, ha lasciato il pane e la pizza avanzati all’esterno del locale, avvisando che chi ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto usufruirne. E lasciando anche l’idea del “pane sospeso”.
Il “sospeso”: una forma anonima d’aiuto
Tutti gli organizzatori si augurano che l’idea possa diffondersi: in altri quartieri, in altre città, per altri generi di prima necessità. Abbiamo parlato con Luigino Bruni, professore di economia politica all’Università Lumsa, per capire da dove viene e dove può andare questa tradizione. «Dovremo capire un po’ di più dove nasce questa idea del caffè sospeso» riflette. «Credo che sia una bella idea, se vogliamo un po’ nobile, di aiutare i poveri. Il nobile partenopeo ha sempre cercato di fare delle forme filantropiche sociali.
Napoli nel Settecento è stato una delle punte avanzate dello Stato Sociale, è stata tra le prime a inventare gli ospedali per i poveri. Non a caso Napoli è dove è nato l’illuminismo riformatore di Carlo III. Questa pratica era uno dei modi in cui i ricchi davano qualcosa ai più poveri. Credo che la sfida sia oggi quella di farlo diventare qualcosa di più moderno e meno paternalista». L’idea ha in sé qualcosa di unico e molto particolare. «La cosa bella del caffè sospeso è questa forma anonima dell’aiuto» ci spiega Bruni.
«Il rapporto di dono diventa spesso diventa un rapporto di potere. L’umanità è piena di storie di doni e controllo delle persone. L’anonimato del caffè sospeso ha una sua funzione positiva: non so chi l’ha lasciato. È uno di quei casi in cui l’anonimato ha un valore civile, impedisce rapporti di dipendenza personale».
Dal cibo ad una nuova fraternità civile
Se l’idea del “sospeso” è una di quelle cose immediate, che piacciono subito, si tratta di capire se può funzionare in altri ambiti, e crescere ulteriormente. Già l’offrire un pasto, rispetto a un caffè sospeso, comporta un discorso economico diverso e va a toccare un altro tipo di bisogno. «È vero» ci risponde Bruni.
«Non è detto che ciò che ha funzionato in un certo modo lo faccia ancora. Io vado spesso a Napoli e ho visto che questa tradizione è più raccontata che attuata: faccio fatica a trovare un bar che continui veramente questa tradizione. Ma è nel sentire collettivo. Bisogna vedere se passando dal piccolo al grande la cosa funziona. Non è automatico. Una cosa è un caffè e un’altra cosa è un pranzo, e come gestire questo tipo di relazioni. La sfida sarà quella di mettere in moto un processo più ricco di reciprocità o che sia espressione di azioni più ricche e più complesse delle povertà.
Oggi i pasti in una città si possono trovare anche facilmente, tra la Caritas e le varie mense. Il problema è che mangiare non basta per fare una vita dignitosa». Il discorso è più complesso, le esigenze di tante famiglie sono anche di altro tipo. E allora il “sospeso” potrebbe essere il punto di partenza verso qualcosa di più ampio. «Da quello che posso capire, dietro questa idea di trasformare il caffè sospeso in un pasto sospeso c’è un’idea più articolata di un meccanismo di reciprocità generalizzata e civile che si può costruire attorno a questa bella e antica idea» commenta il professore. «Non tanto dare un buono pasto, ma ripartire dalla generosità del cibo come primo mattone per una nuova fraternità civile. Se diventa questo è interessante, se diventa qualcosa di folcloristico mi interessa di meno».
Serve un lavoro culturale che dia continuità
Si tratta di capire se qualcosa come il pasto sospeso sia fatto solo da una serie di iniziative estemporanee o possa essere qualcosa in grado di acquistare una continuità. «Ci sono altre esperienze interessanti in Italia» commenta Luigino Bruni.
«Il progetto di Torino “Fa bene” è attivo in cinque mercati della città: chi fa la spesa al mercato compra un chilo di frutta per sé e lascia un chilo a qualcuno. Pago due e prendo uno. E funziona abbastanza bene». Ma il “sospeso” può davvero diventare una risposta ai tanti lati della povertà? «Io per ora lo vedo più come una bella intenzione un po’ folcloristica» ci risponde il professore. «Non mi sembra che ci siano ancora le condizioni per farne un’innovazione sociale. Potrebbe esserlo, ma dipende da alcune cose. Uno, andarsi a studiare la storia del caffè sospeso: come nasce? Cosa vuol dire l’aggettivo sospeso? Perché è sospeso e non donato, o gratis? Come ha funzionato e perché?
Due, riscoprire il valore del bene anonimo, perché se c’è di mezzo la povertà i nomi delle persone possono diventare manipolazione. Non mi piace che sia legato ai grandi chef, perché mi pare una trovata pubblicitaria. Se c’è un po’ di lavoro culturale dietro può diventare qualcosa di importante. Se dietro c’è un lavoro, se ci si basa su realtà associative serie, sui territori, su esperienze civili robuste potrebbe essere una bella innovazione». Come fare allora per rendere più continue queste iniziative, per farle diventare un sistema in grado di crescere e dare delle risposte concrete? «Un progetto culturale vuol dire questo» risponde Bruni. «Dire che non a caso nasce a Napoli, dove è nata l’economia civile, legata a un’idea di reciprocità. E che il caffè sospeso è espressione di una via diversa al mercato, che poi si è bloccata ma è rimasta viva nello spirito del popolo. Quindi occorre andarla a riscoprire all’interno di una visione più ampia. Se diventa una forma di filantropia come ce ne sono altra non mi sembra molto innovativo. La novità che c’è nella vicenda napoletana è questo rapporto tra le persone, che mette in moto il circuito del dono. È un’intuizione di una certa idea di reciprocità. Se questo poggia su alcune realtà civili, come le associazioni o anche i comuni po’ funzionare. In Italia abbiamo esperienze che sono partite un po’ dall’alto ma che per la saggezza sono diventati progetti del popolo».