TOGLI IL FRAC E LA MUSICA DIVENTA RUMORE
Il maestro Carlo Maria Parazzoli si finge un medicante. Un esperimento che spiega molte cose della nostra società
08 Giugno 2016
Carlo Maria Parazzoli non è solo uno straordinario musicista, ma anche una persona cordiale e umile, innamorata del proprio lavoro. Glielo leggiamo negli occhi, quando dopo aver sorseggiato con cura il proprio caffè, proprio a pochi passi dall’Auditorium di Roma, confessa: «Posso reputarmi un fortunato, per me suonare è una passione ed è ciò che più mi permette di esprimermi, di comunicare al pubblico le mie emozioni».
Abbiamo davanti, in un dialogo intimo sul senso dell’arte e della vita, uno dei più celebri artisti italiani, intercettato tra un tour in Sudamerica appena concluso e uno nel cuore dell’Europa alle porte. «Mi piace viaggiare, soprattutto insieme alla mia musica», ci racconta il primo violino dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, uno che si è esibito con grandi direttori (Lang, Argerich e Sawallisch, per fare tre nomi) nelle migliori sale del mondo.
Gli atteggiamenti verso chi è diverso
Il motivo di questa chiacchierata? Una mattina di Gennaio, Carlo Maria Parazzoli ha sposato la causa del giornalista de “Il Corriere della Sera”, Federico Fubini, scendendo dal palco fino ad arrivare sotto terra, fingendosi un mendicante, alla fermata Lepanto della Metro di Roma. Il maestro ha suonato mezz’ora di Bach. I risultati? 1800 passanti, solo 11 spettatori (chi si è fermato per almeno 30 secondi) e 13 euro e qualche centesimo raccolto. Una miseria, considerando che l’incasso medio di un’esibizione di Parazzoli è di alcune decine di migliaia di euro.
«Nessuno si è accorto di qualche differenza qualitativa, ma a me hanno impressionato di più le reazioni. Qualche sguardo attento, tanta indifferenza e l’entusiasmo dei bambini». Loro sì, senza pregiudizi, forse hanno riconosciuto il talento. Ma gli altri? «Avevano quasi paura», spiega Parazzoli, «c’era la chiara volontà di evitare qualsiasi seccatura e interferenza nella propria vita privata e sociale. Abbiamo dimostrato questo: gli atteggiamenti che ogni giorno abbiamo con chi è diverso, povero ed emarginato».
«Non mi aspettavo di essere riconosciuto», ammette con un sorriso, mentre poggia sul tavolino la tazzina ormai vuota, «anche se fossero passati 100 dei nostri abbonati. Un conto è essere col frac, su un palco e col violino tra le mani. Nella metro ero decontestualizzato». Eppure, nel Dicembre 2015, l’Accademia di Santa Cecilia portò a suonare alcuni suoi artisti all’aeroporto di Fiumicino. Lì, centinaia di persone rimasero ad ascoltare Carlo Maria Parazzoli. «Certo, ero io, con il mio nome e cognome, non un mendicante e poi c’erano le telecamere e le luci. Una calamita per la gente, che spera sempre di trovarci dietro qualcuno di famoso», ammette con sarcasmo il maestro, aprendo un interrogativo che vale per l’arte in generale: la sappiamo riconoscere anche fuori dal proprio contesto? «Mettete un quadro di Van Gogh in una discarica, ognuno di noi vedrebbe solo tanti rifiuti intorno ad una tela. L’arte ha anche bisogno del suo luogo, non solo perché rischia di non essere riconosciuta, ma anche perché non la si apprezza fino in fondo. La musica, se la suono in una metro, non riesco a sentirla come in un teatro. E potremmo aver ascoltato la suonata del secolo senza rendercene conto…»
Si può sempre suonare insieme
Eppure di artisti di strada ce ne sono tanti. «A volte sono più bravi di noi», ci racconta Parazzoli, «io mi fermo spesso ad ascoltarli, ci sono rom e tanti stranieri bravissimi. Ci resto anche mezz’ora, se ciò che fanno mi piace. In fondo la bellezza, nella musica e nell’arte, è semplicemente qualcosa che abbia armonia e che ci comunichi sentimenti. È l’artista stesso che si racconta attraverso la propria opera».
Proviamo a provocarlo. Allora è vero che l’arte abbatte le barriere? La vecchia storia della musica come linguaggio universale, in un’epoca di rinnovate discriminazioni, sembra quanto mai attuale: «Mi è capitato tante volte di suonare con musicisti russi, giapponesi, rumeni. Magari non riusciamo a dirci neanche una parola, ma si può suonare insieme. È una cosa eccezionale, che solo la musica ti permette. Una sorta di “esperanto” portata a compimento».
L’arte dimenticata
La chiosa finale può sembrare amara, ma è un invito a prendere coscienza sulla crisi culturale che ci sta travolgendo: «Lo Stato dovrebbe formare la società all’arte e al gusto», ammette Carlo Maria Parazzoli. «E invece c’è chi sta usando la crisi come scusa per allontanare la gente dalla cultura, considerata oramai quasi un lusso e un inutile spreco di risorse».
Al maestro tutto questo fa paura: «In Germania nelle case dei musicisti mettono delle targhe, “Qui vive…”, eppure siamo noi che abbiamo insegnato la musica nel resto del mondo per secoli». Un esempio perfetto ce lo offrono internet e i social network: «Per la mia generazione, essere famosi equivaleva a saper far qualcosa di unico, di artistico o intellettuale. Oggi su YouTube ci sono ragazzi assolutamente normali, che non fanno nulla di straordinario e diventano famosi, con milioni di followers. Ma non hanno nulla, neanche la pretesa di essere artisti. È il trionfo della normalità nella società dell’immagine e delle apparenze. E l’arte, a tutto questo, deve opporre resistenza se vuole continuare ad esistere».
Parole intense, che aprono spunti di riflessione enormi. Quasi ci dimentichiamo di pagare il caffè. Finché in lontananza scorgiamo due ragazzi con il violino in spalla, che stanno per varcare l’entrata dell’Auditorium. «Il caffè lo offro io», insiste Carlo Maria Parazzoli, «qui siamo a casa mia».