IN AIUTO ALLE DONNE MIGRANTI CHE HANNO SUBITO VIOLENZA

Un progetto di Dire fa luce sulle richiedenti asilo e rifugiate nei centri antiviolenza. Servono ascolto, accoglienza, opportunità

di Ilaria Dioguardi

Nella Giornata mondiale dei Diritti Umani, sono stati presentati i risultati di “Leaving Violence. Living Safe”, progetto realizzato per il secondo anno da D.i.Re Donne in rete contro la violenza, in partnership con l’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Progetto che nasce per rispondere ai bisogni delle migranti richiedenti asilo e rifugiate nei centri antiviolenza dei centri D.i.Re.
Dai dati, resi noti oggi in una conferenza stampa alla Casa Internazionale delle Donne di Roma, emerge che queste donne si trovano ad affrontare molte violenze, sia nel Paese di origine sia nel viaggio per arrivare in Italia.
Il progetto ha provato anche a mettere a fuoco cosa cambia nei centri antiviolenza della rete D.i.Re quando a loro si rivolgono queste donne. «È importante capire i punti di vista delle sopravvissute, che spesso arrivano nel nostro Paese dopo tante disavventure. Dobbiamo dare loro la possibilità di vivere in Italia con dignità. L’importante è lavorare tutti insieme affinché ciò sia possibile», afferma Nardos Neamin, SGBV (Sexual and Gender-Based Violence) expert di Unhcr.

 

 

Un momento della Conferenza Stampa

PERCHÈ È NATO IL PROGETTO. D.i.Re è presente in tutta Italia con 80 centri, nati sulla spinta dei movimenti delle donne. «Facciamo un lavoro multiagenzia, che si basa sulla corretta formazione degli operatori. Da sempre i centri hanno accolto donne migranti, italiane e straniere. Con le donne migranti, che rappresentano il 25% delle donne che seguiamo, dobbiamo tenere in considerazione altri fattori, quali la famiglia di provenienza e la cultura, ad esempio. Per i centri è stato un passo recente lavorare con le donne migranti richiedenti asilo e rifugiate: i nostri sono gli unici luoghi presenti nel territorio con una preparazione adeguata ad accoglierle», dice Mariangela Zanni, Consigliera nazionale D.i.Re.

«Ci siamo accorti che c’erano due mondi che non si incontravano: le donne migranti e richiedenti asilo rifugiate nei centri antiviolenza D.i.Re, che per il 90% aveva subito violenza, non si parlavano con le commissioni territoriali, ovvero con chi doveva occuparsi della loro accoglienza», dice Chiara Sanseverino, project manager “Leaving Violence. Living Safe”. «8 operatrici e 8 mediatrici culturali sono state presenti nei centri antiviolenza coinvolti nel progetto. Sono state le artefici degli incontri di rete territoriali: le organizzazioni che sono riuscite ad incontrare sono circa 80. In alcuni casi sono stati siglati accordi con enti territoriali». Tanti gli obiettivi raggiunti: l’inserimento attivo delle mediatrici culturali, la riscrittura della metodologia di accoglienza, facendo riferimento al target e, fattore molto importante, l’espansione delle reti territoriali.

«Tutto quello che è stato fatto si è basato sulla valorizzazione di tutte le donne coinvolte, con la messa al centro delle specificità territoriali e dei loro ruoli», spiega Maria Elena Cirelli, project manager del progetto. «Quando si parla di metodologia adattata, dobbiamo per forza considerare le peculiarità sociali, politiche e di contesto nell’approccio con le donne migranti richiedenti asilo e rifugiate. L’”io ti credo” dei centri antiviolenza si è scontrato con l’”io non ti credo” delle istituzioni, ci siamo dovute confrontare con queste realtà».

 

CHI ACCEDE AI CENTRI. Il Progetto di ricerca “Samira. Per un’accoglienza competente e tempestiva delle donne e ragazze in situazioni di violenza e di tratta in Italia”, si propone di migliorare l’identificazione e la qualità dell’accoglienza di donne e minori migranti vittime di violenza sessuale e di tratta in arrivo e presenti in Italia, ed è stato condotto da Laura Pasquero e Raffaella Palladino. Realizzato nel 2017 grazie al contributo di Conad, “Samira” ha messo le basi di “Leaving Violence. Living Safe”.

«Nel progetto presentato oggi, abbiamo messo in campo monitoraggio e valutazione con approccio femminista, privilegiando il dato qualitativo e la narrazione delle protagoniste», spiega Laura Pasquero, coordinatrice per il monitoraggio e la valutazione di “Leaving Violence. Living Safe”. Nel progetto 50 donne richiedenti asilo e rifugiate in 8 regioni hanno avuto accesso ai centri D.i.Re. Le città coinvolte sono state Grosseto, Milano, Caserta, Pescara, Cosenza, Torino, Palermo, Padova a cui si sono aggiunte, con l’inserimento delle nuove migranti, Bolzano, Piacenza, Latina, Prato, Faenza, Viterbo.  «È aumentata la consapevolezza degli attori dell’accoglienza su violenza e bisogni delle donne, con il coinvolgimento di 85 persone e 290 partecipanti in totale. Inoltre, sono aumentate le competenze culturali dei Centri D.i.Re, con 14 nuove mediatrici formate e 10 avviate a tirocini, 41 mediatrici sono state formate in 3 anni. La formazione delle mediatrici è fondamentale per la qualità del dialogo del lavoro con le donne».

Il 96% delle donne accolte ha un’età compresa tra 20 e 39 anni, il 4% tra 40 e 60 anni. Si riconferma il trend degli anni scorsi, in cui le donne di origini nigeriane sono le più rappresentate sia tra le donne che effettuano un primo accesso ai centri, sia tra le donne che effettuano gli incontri di follow-up.
Rispetto all’anno scorso alcune nazionalità non sono rappresentate (Somalia, Eritrea, Etiopia), mentre altre sono nuove di quest’anno in particolare dall’America Latina (Brasile, Repubblica Dominicana, Peru, El Salvador) e Iraq. «L’andamento crescente degli accessi delle donne negli ultimi 6 mesi dimostra come per tutti i centri i risultati siano in aumento e direttamente proporzionali agli sforzi che vengono fatti e al tempo trascorso dall’inizio del progetto, che questi sforzi consolidano», continua Laura Pasquero.

 

LA COLLABORAZIONE CON I CENTRI DI ACCOGLIENZA. La maggior parte delle donne richiedenti asilo e rifugiate accedono al centro tramite invio delle forze dell’ordine o dei servizi sociali o, in piccola parte, autonomamente. È solo grazie a questo progetto che molti centri sono entrati in contatto sia con le strutture di accoglienza che con le commissioni. I centri di accoglienza si sono rivelati partner importanti e la collaborazione con loro si è accresciuta molto quest’anno. Oltre a partecipare a incontri di networking e di scambio di prassi, i centri nelle varie regioni hanno anche accolto le équipes dei centri D.i.Re per permettere incontri conoscitivi e informativi con donne accolte. «Il basso livello di accessi autonomi, ci deve far riflettere sulla comprensione da parte dei centri D.i.Re dei bisogni e delle domande e delle priorità che hanno le donne, ma anche della conoscenza e comprensione che le donne hanno dell’esistenza e del ruolo dei centri, della percezione della violenza stessa da parte delle donne, e della possibile ed effettiva possibilità di una scelta “autonoma” da parte di tante donne, in questo contesto. Gli accessi autonomi sono stati effettuati da donne che avevano assistito a sessioni conoscitive e informative di D.i.Re con loro nei centri di accoglienza, segno che questi incontri hanno un grande potenziale e valore strategico».

 

violenza sulle donne
Una manifesta contro la violenza sulle donne

LE VIOLENZE. La violenza emersa, di cui le donne hanno parlato in sede di colloqui, è fisica nel 25% dei casi, psicologica nel 20%, economica nel 15%. Inoltre, hanno denunciato stupro nel 9% dei casi, sfruttamento sessuale nell’8%, traffico di esseri umani ai fini di sfruttamento sessuale nell’8%. Nel restante 15%, si registrano stalking, matrimonio forzato, aborto forzato, mutilazioni genitali femminili, gravidanze forzate. Non si parla di eventi isolati, ma di un’esperienza complessa spesso prolungata e di compresenza di diversi tipi di violenza. Le violenze sono subite nei paesi d’origine, in transito (Libia) e in Italia, spesso con una stratificazione delle forme e degli eventi di violenza subìti lungo la rotta migratoria.

Le criticità attuali sono molte, vanno da una situazione di violenza attuale (nel 7% dei casi) a potenziali situazioni di tratta, da uno stato di gravidanza e/o figli a carico (in alcuni casi figli disabili) a situazioni di grave indigenza quali l’accattonaggio, da problemi di natura fisica o psicologica alla mancanza di alloggio, fino alla non conoscenza della lingua italiana, grave problema per l’accesso all’impiego e per intraprendere un percorso verso l’autonomia.

 

I PROBLEMI APERTILe barriere d’accesso ai centri antiviolenza rimangono alte per moltissime donne. Bisogna lavorare molto,  per abbattere il problema della «non credibilità» della storia: il fatto che le storie di molte donne sopravvissute alla violenza non siano ritenute credibili durante le audizioni in Commissione e il conseguente non invio di segnalazioni ai centri.

«Altri due problemi sono la chiusura di strutture di accoglienza in alcuni territori e la presenza di barriere esterne (istituzionali, politiche, economiche). Il lavoro di D.i.Re deve concentrarsi di qui in poi su quelle donne che non hanno avuto accesso ai centri», dice Laura Pasquero.

Per i progetti futuri, bisogna considerare la grande importanza della continuità per la sostenibilità, fare molta attenzione alle vulnerabilità, rafforzare il consolidamento delle partnership e creare un maggiore coinvolgimento delle donne.  «Molte donne sono state vendute e sfruttate da altre donne, conquistare la loro fiducia è molto difficile, è un percorso molto lungo», racconta Carmen Klinger, operatrice ed esperta culturale del Centro antiviolenza D.i.Re Olympia De Gouges di Grosseto. «La prima cosa da fare è ascoltare le richieste e i bisogni della donna. In primis, le servono i documenti, poi ha tanta paura di non essere creduta. Ad ognuna di queste donne capitano tante cose brutte, tanto da vergognarsi e da aver paura che la gente non creda, che tutto ciò possa essere successo a lei. Bisogna dare loro tanto tempo per aprirsi e parlare loro con tanta delicatezza. Si crea rispetto e fiducia rispettando le proprie caratteristiche culturali. Se la persona di fronte non si sente rispettata, difficilmente si instaurerà un rapporto di fiducia. Bisogna ripulirsi di stereotipi, spesso si pensa nei loro confronti che dovrebbero “svegliarsi, darsi una mossa”: se una di noi subisse un quarto delle violenze che subiscono queste donne, non ci rialzeremmo dal letto. Invece loro reagiscono, cercano di dimenticare».

«In Nigeria se un marito ti picchia è una cosa normale. La polizia rimanda a casa le donne che vanno a denunciare le violenze in casa, a volte vengono picchiate anche dai poliziotti», aggiunge Cynthia Aigbe, mediatrice culturale della Cooperativa Eva. di Caserta. «Quando arrivano in Italia, nei centri antiviolenza devono capire di potersi fidare delle operatrici e devono poter imparare la lingua italiana. Poi è importante indicare loro dove potersi rivolgere per trovare un lavoro».

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org

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