CHE FARE QUANDO IL MONDO È IN FIAMME: SE L’AMERICA È ANCORA IN BIANCO E NERO
Il film di Roberto Minervini è un eccezionale documento, un viaggio nella Louisiana delle tensioni razziali che in America oggi sono vive più che mai
13 Maggio 2019
È un bianco e nero netto, carico di contrasti quello che caratterizza Che fare quando il mondo è in fiamme? (What You Gonna Do When The World’s On Fire) di Roberto Minervini, appena arrivato nelle nostre sale. È il bianco e nero in cui è girato il film. Ma rispecchia la divisione ancora netta, marcata, che in gran parte degli Stati Uniti oggi, forse ancora più che ieri, ci appare tra bianchi e neri. Che fare quando il mondo è in fiamme? di Roberto Minervini (che Reti Solidali aveva incontrato in occasione del suo precedente film, Louisiana) è stato girato tra Baton Rouge e Jackson nel 2017, quando da poco erano stati uccisi Alton Sterling e Philando Castile, a opera della polizia. Minervini, con la sua macchina da presa, riesce a scendere tra la gente e cogliere la rabbia e lo sconforto nella protesta dei Black Panthers (che oggi si chiamano New Black Panther Party For Self-Defense), pugni chiusi e slogan scanditi a gran voce, che chiedono giustizia per queste vittime. E, mentre riprende l’affresco sociale e collettivo di quello che sta succedendo in Louisiana, ci porta anche letteralmente nelle vite di alcune persone che vivono in quei luoghi. Come Judy Hill, una donna con una forza incredibile, un passato fatto di droga e furti, e la seconda possibilità promessa dal sogno americano, che per lei vuol dire un bar che ha aperto con le sue sole forze, che svanisce quando riceve lo sfratto. Perché quel quartiere sta per essere gentrificato, e allora gli affitti si alzano, e conta poco che Judy riesca a pagare quei 1200 dollari di affitto ogni mese, non c’è niente da fare. È solo business, come le dice la madre. E poi ci sono Ronaldo e Titus, due bambini che vivono con la madre single: il padre è in galera e loro badano l’uno all’altro, passano molto tempo insieme, sono costretti ad essere più grandi di quella che è la loro età. Ronaldo parla con la madre, e le racconta che vuole andare a stare dal padre una volta uscito da galera, perché, se poi finirà ancora dentro, non lo vedrà più per lungo tempo. E allo stesso tempo ha paura della violenza, della criminalità, è convinto nel non voler seguire le sue orme.
A HISTORY OF VIOLENCE. Quello che colpisce, in queste conversazioni disilluse, è considerare la prigione come qualcosa di ineluttabile, di inevitabile: un destino segnato. Il carcere, la criminalità, la violenza sono i fili conduttori del film. Ricorrono in tutti i discorsi, continuamente. Le persone ne parlano con dolore ma con naturalezza. Judy e il cugino, uscito di prigione, parlano delle violenze, quelle del padre di lui, o quelle dei bulli nella scuola di lei. Parlano di persone per cui entrare e uscire di prigione è la norma. Ascoltiamo così una serie di storie di droga, di furti, di stupri, che la macchina da presa di Minervini riesce a catturare in una serie di confessioni a cuore aperto, drammatiche più di ogni copione che possa essere scritto e recitato da attori da Oscar.
Sì, perché le immagini di Minervini sono così raffinate, in quei bianchi e quei neri brillanti, le persone riprese sono così intense che per lunghi tratti si stenta a credere, o meglio, ci si scorda di assistere a un documentario, e si segue la storia come fosse un film di finzione, un film scritto e recitato. Invece siamo immersi nella realtà, una dura, durissima realtà. La bravura di Minervini è quella di rendersi invisibile in mezzo alle persone che riprende, a non far sentire la sua presenza, in modo da farli sentire a loro agio nel raccontarsi. Minervini è unico nel convincere queste persone a fidarsi, ad aprirsi, mettendo in chiaro subito quali sono le sue intenzioni, a far capire che sta dalla loro parte, in mezzo a loro. Ma è bravissimo anche a prendere queste vite e racchiuderle in una storia commovente, montandole in un racconto perfetto, che nessuna sceneggiatura potrebbe ricreare, e ammantandole di una luce che, catturandole in quelle immagini, le fissa nel tempo, le rende immortali.
BIANCO E NERO. Le immagini in bianco e nero hanno dentro di sé una potenza, e insieme un artificio. Hanno la caratteristica di restare impresse, di essere iconiche e diventare in qualche modo astratte dalla realtà che raccontano, di fissare quello che riprendono e di farlo diventare in qualche modo più lontano. La raffinatezza, la luce, il contrasto di quelle immagini le rendono qualcosa di universale. Ed è così. Cosa fare quando il mondo è in fiamme? è un film universale. I senzatetto che vediamo sono in America. Ma ci sono anche qui. I debiti di chi ha investito tutto quello che aveva sono quelli di Judy, ma potrebbero essere quelli di tante persone in tutto il mondo. Che fare quando il mondo è in fiamme? è un film duro, una storia di resistenza e resilienza. Ma è anche commovente nel momento in cui vede Ronaldo e Titus giocare insieme, e Ronaldo insegnare il pugilato al più piccolo per difendersi. È commovente Judy, che nel momento in cui annuncia che dovrà chiudere il bar sta cantando una canzone soul vestita d’argento. E sono commoventi le persone che girano per il quartiere con delle bici illuminate, per una protesta pacifica, per far capire che ci sono, per manifestare contro la gentrificazione.
OBAMA? CI AVEVAMO CREDUTO. Dobbiamo ammetterlo: ci avevamo creduto. Avevamo creduto all’era Obama, avevamo creduto che il primo Presidente afroamericano della storia avesse finalmente cambiato le cose. Abbiamo letto e visto tanto su questa storia, dagli anni Sessanta e da Martin Luther King, da quando John Lennon è entrato in contatto con i Black Panthers. Da lontano, come siamo noi rispetto all’America, per qualche anno non abbiamo visto più certe cose, forse non siamo stati attenti, forse eravamo tranquilli perché Obama ci sembrava un segno. E ora stentiamo a credere si sia ancora al punto di cinquanta anni fa. O che addirittura sia peggio. Dalle note per la stampa che ci sono state date in occasione dell’uscita di Che fare quando il mondo è in fiamme? abbiamo appreso che, con l’elezione di Barack Obama alla presidenza, la speranza di molti era che il razzismo negli Stati Uniti tramontasse per sempre. A posteriori, invece, sembra che il risultato sia stato esattamente l’opposto, e che la vittoria di Obama abbia provocato una recrudescenza del razzismo. I suoi oppositori al Congresso l’hanno apertamente insultato, e le ostilità ai suoi danni sono cresciute, insieme alle dichiarazioni razziste di politici e cittadini. Ma, come abbiamo visto da questo film, il razzismo in America oggi ormai va oltre le parole. Le violenze esplicite che le forze dell’ordine perpetrano ai danni degli afroamericani ricordano il clima della prima metà del Novecento. Isabel Wilkerson, premio Pulitzer, ex inviata sul territorio nazionale e reporter del New York Times, ha scritto: “Dopo questi casi, i genitori neri si trovano di nuovo nella condizione di dover salvaguardare se stessi e i propri figli dalla violenza che subiscono in proporzioni inaudite per mano delle autorità che avrebbero il compito di proteggerli. Si ritrovano a recitare di nuovo lo stesso discorso che i loro antenati facevano ai figli nel vecchio Sud: bisogna rispondere Sissignore e No, signore, e stare attenti a come ci si comporta con la casta superiore e con la polizia”. L’Era Obama è finita. E, purtroppo, non ha lasciato traccia.
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