I CAMPI ROM, LA DESOLAZIONE, LA PACCHIA. ECCO IL DOCUMENTARIO SUL CAMPING RIVER
Si può arrivare alla chiusura dei campi senza percorsi di integrazione e riconoscimento dei diritti dei Rom? Un documentario di Cabotti e Maffia
16 Maggio 2019
Le case distrutte, i tavoli rovesciati, i rubinetti incrostati, le voci degli abitanti e degli attivisti… È passato quasi un anno dalla chiusura del Camping River e nulla sembra essere cambiato per i Rom a Roma. Anzi, in campagna elettorale la cronaca ci consegna episodi di rifiuto nei confronti delle famiglie cui è stata assegnata una casa e un crescendo di odio verbale, a scopo di propaganda politica. E generiche dichiarazioni sulla chiusura dei campi Rom, senza che nessuno dica come farlo. Per questo vi proponiamo un mediometraggio proprio sul Camping River. Si intitola “Oltre la desolazione/2. La pacchia” e gli autori sono Gianni Carbotti e Camillo Maffia. Vale la pena vederlo, perché ripercorrere attraverso le immagini quella vicenda, aiuta a capire aspetti importanti di ciò che sta succedendo in queste settimane, aspetti che i media normalmente non raccontano.
Camillo Maffia, perché avete deciso di girare questo documentario?
«La vicenda del Camping River è molto complicata. Avrebbe dovuto essere costruito un altro campo in un’altra zona, dove portare gli abitanti del River, ma non è stato fatto. Scaduto il contratto, il Comune, dopo una lunga querelle con la cooperativa che lo aveva gestito fino a quel momento, non lo ha rinnovato e da quel momento il campo è diventato abusivo. Le condizioni di vita si sono degradate: è mancata l’acqua, poi la luce, è aumentata la sporcizia, sono arrivate le minacce di sgombero… Uno sfacelo umanitario».
Eppure fino a quel momento le condizioni di vita erano più che accettabili.
«Il Camping River era un campo modello, dove c’era pulizia e la scolarizzazione era arrivata al 90%, c’era anche un laureando e c’erano tre diplomati».
Poi cosa è successo?
«Quella specie di stato d’assedio che il Comune aveva costruito è culminato non con lo sgombero, ma con la distruzione dei container, cioè i moduli abitativi, che erano del Comune stesso, tanto che si potrebbe parlare di danno erariale, perché avrebbero potuto essere riutilizzati altrove».
Alla fine gli abitanti sono stati sgomberati. Sono riusciti a trovare una casa?
«Alcune delle famiglie Rom che dovevano essere accolte a Torre Maura provenivano dallo sgombero del Camping River. Direi comunque che la maggior parte delle famiglie non ha ancora trovato una ricollocazione».
Torniamo sempre allo stesso punto: non c’è una vera strategia per risolvere il problema della chiusura dei campi Rom.
«Adesso i campi sono una realtà davvero problematica, ma non dimentichiamo che è un problema che abbiamo creato noi. Sappiamo che la maggior parte dei campi è abitata da profughi della ex Jugoslavia, che fuggivano dalla guerra e per i quali era stata trovata questa soluzione, che doveva essere temporanea e poi è diventata permanente. Si è così creato un corto circuito assistenziale, che ha coinvolto proprietari dei terreni, enti pubblici e non profit. Ormai è un problema endemico. Nel 2012 è stata pubblicata la Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, dei Sinti e dei Caminanti, che però avrebbe dovuto essere implementata a livello locale. A Roma non è stato fatto. Renzi ha prorogato la Strategia fino al 2020, ma nel frattempo lo scenario è cambiato, con il risultato che ci troviamo a invocare il rispetto di una strategia adesso obsoleta. E non dobbiamo dimenticare che le criticità nell’inclusione non sono solo i campi nomadi: ad esempio è un problema il fatto che i Rom sono minoranza che non è mai stata riconosciuta. Tutto il resto l’hanno fatto anni di hate speech, propaganda, dati gonfiati, a partire da Berlusconi, che cominciò a parlare di “emergenza Rom”. In realtà a Roma si tratta al massimo di 7.800 persone, di cui metà bambini, in una metropoli che ha 4 milioni abitanti».
Aggiungiamo anche i gruppi di estrema destra, che sobillano la popolazione, soprattutto quando vogliono impedire a qualche famiglia di entrare nell’appartamento che le è stato legalmente assegnato. Però non si potrebbe almeno cercare di affrontare qualcuno dei problemi che maggiormente creano ansia nei cittadini: i roghi tossici, la legalità nei campi…?
«La distanza tra pericolo percepito e pericolo reale è tale – anche nel caso del Camping River – che è davvero difficile colmarla. In realtà i cittadini non sanno cosa realmente succede nei campi. Ma colpevolizzare il poveraccio che per guadagnare 20 euro respira diossina perché ha acceso un fuoco, a che serve? Il vero problema è il circuito illegale dello smaltimento dei rifiuti. Nel campo di Salone c’è una vera e propria discarica abusiva: io ci sono salito e ho visto oggetti inclassificabili, ma che certamente non sono stati prodotti dai Rom. C’è il pericolo che si guardi il dito e non la luna: se colpevolizziamo una persona che obiettivamente commette un reato e provoca danno alla salute pubblica, concentriamo tutta l’attenzione sul sintomo piuttosto che sulla malattia, per ovvie ragioni di convenienza».
E quindi, da dove ricominciamo, non solo per chiusura dei campi Rom, ma per l’inclusione?
«Bisogna riprendere prendere i punti della Strategia a livello nazionale e locale e aggiornarla prima che sia troppo tardi. A Roma c’è stata anche Mafia Capitale, che ha complicato le cose, e poi c’è stato il commissariamento, che non ha portato soluzioni né cambiamenti. L’assessora Francesca Danese, della giunta Marino, aveva impostato un buon lavoro che non è stato ripreso da nessuno. Ma sappiamo che senza un approccio collegiale questo problema non troverà mai una via di uscita e che bisogna fare molta attenzione ai problemi pratici».
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