ANZIANI. SERVONO FORME DI ASSISTENZA CHE LI RISPETTINO
Prosegue il dibattito sulla chiusura delle RSA- residenze sanitarie assistenziali. Le posizioni di Arvas e di Sant'Egidio
25 Febbraio 2021
Oltre al coronavirus l’isolamento. Una trappola divenuta ormai un’infelice costante nell’esistenza delle persone più anziane e fragili, costrette ancora oggi a vivere isolate in casa, nelle residenze sanitarie o negli ospedali. Limiti strutturali già noti, quelli del sistema assistenziale e sociosanitario italiano, tornati però drammaticamente a galla in questo tempo scandito dalla pandemia e segnato sempre più dall’esigenza non solo di percorrere nuove vie di prossimità a chi è solo e malato, ma anche di ripensare gli attuali modelli assistenziali.
Arvas: riformare il sistema dall’interno
È soprattutto sul primo fronte che si stanno impegnando realtà come l’Arvas del Lazio (Associazione regionale volontari assistenza sanitaria), attiva da 40 anni a Roma e nelle province di Viterbo e Frosinone. «La nostra organizzazione, che conta 1.800 volontari, opera soprattutto in ambito ospedaliero, ma anche in qualche casa di cura. Ora però quasi tutte le nostre attività sono state sospese», spiega il presidente Silvio Roscioli. «Così abbiamo scelto di impiegare questo tempo per la formazione personale, per riscoprirci realtà unita, ma soprattutto per avviare delle iniziative legate per lo più all’assistenza di “palazzo”, con un’attenzione rivolta soprattutto a quei luoghi e quartieri in cui vivono gli anziani e i malati. A tal proposito cerchiamo di mantenere, per eventuali segnalazioni, contatti costanti con gli assistenti sociali dei vari municipi».
Presenza attiva sul territorio dunque, ma anche sostegno alle famiglie: «Al momento non abbiamo accesso né agli hospice né ai reparti di oncologia, cerchiamo tuttavia dall’esterno di stare quanto più possibile vicino ai familiari, dando loro una parola di conforto», prosegue il presidente. «Mai come ora le persone stanno vivendo disagi evidenti e drammatici. Anche per questo abbiamo deciso di offrire la nostra disponibilità alla Protezione civile, alle strutture ospedaliere e alle Asl di riferimento. Eppure, abbiamo trovato solo un muro invalicabile». Unica eccezione l’ospedale San Giovanni di Roma: «I nostri volontari, dopo essere stati vaccinati, hanno cominciato ad operare all’interno della struttura, soprattutto accogliendo e aiutando nella compilazione dei moduli i tanti ultraottantenni che si devono sottoporre alla vaccinazione», riferisce Roscioli. «Una presenza attiva, fatta di ascolto e vicinanza: è questa la vera ricchezza del volontariato sanitario».
Un modus operandi che finisce per scontrarsi non solo con la burocrazia e i suoi infiniti cavilli, ma anche e soprattutto con gli attuali modelli di istituzionalizzazione, primi fra tutti quelli incentrati sulle RSA (residenze sanitarie assistenziali). Qui gli anziani e le loro famiglie stanno vivendo un lockdown di fatto mai finito. «Andrebbero riformate e ristrutturate all’interno, fornendo personale adeguato e adeguatamente preparato e poi aprendo con progetti al volontariato», commenta il presidente, alla luce della sua esperienza. «Le strutture dovrebbero essere compatibili con le esigenze delle singole persone e promuovere un coinvolgimento diverso delle famiglie».
Sant’Egidio: la chiusura delle RSA è auspicabile
Una posizione nettamente più critica è quella assunta dalla Comunità di Sant’Egidio, da sempre favorevole alla chiusura delle RSA e al superamento del sistema della residenzialità e a un rafforzamento dei servizi specifici per gli anziani, in primo luogo le cure domiciliari. «L’istituzionalizzazione non può e non deve essere l’unica soluzione possibile», sottolinea Giancarlo Penza, coordinatore del servizio anziani della Comunità. «Da sempre infatti noi siamo contrari alle RSA, luoghi dove è difficilissimo trovare buone pratiche, ma anche laddove ci fossero, si fondano comunque su un modello spersonalizzato quasi per natura. A ciò si aggiunge il fatto che queste strutture, già da tempo sottoposte a una privatizzazione selvaggia, vengono gestite in base a economie di scala che necessariamente limitano la libertà degli ospiti».
Da qui la proposta della Comunità trasteverina di portare dal 3% attuale ad almeno al 10% la quota di anziani che può essere seguita da un servizio di assistenza domiciliare integrata.
Aiutare gli anziani dunque a restare nelle loro case, nel loro tessuto familiare o quanto meno sociale: questo l’obiettivo che ha spinto Sant’Egidio a incentivare e attuare soluzioni abitative alternative, come il co-housing, dove gli anziani uniscono le proprie risorse e decidono di andare a vivere insieme, per condividere le spese per l’affitto e l’assistenza, ma anche per vincere la solitudine. «Rientrano in questo modello di convivenza anche i condomini protetti e le case famiglia», riferisce il coordinatore. «A Roma sono almeno 40 i nuclei di co-housing che si sono formati in questi anni e che continuiamo a sostenere e a monitorare. Una caratteristica molto importante di questa esperienza è che l’anziano resta inserito all’interno di un contesto urbano che favorisce la sua integrazione».
Un modello virtuoso, insomma, quello del co-housing, che se coltivato potrebbe segnare un’inversione di tendenza in direzione della dignità dell’anziano e dei suoi profondi bisogni abitativi.
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