LO SPORT EDUCA. PURCHÈ LA COMPETIZIONE NON PRENDA IL SOPRAVVENTO
Lo sport, compreso il calcio, è un'agenzia educativa e deve mettere la centro la persona e le sue esigenze. Intervista con Marco Giustinelli
06 Dicembre 2018
Chiunque abbia praticato sport di squadra sa bene che a giocare sono sempre i più forti. Un dogma per le società sportive professionistiche, speranzose di sfornare nuovi talenti. Ma cosa accade nelle associazioni sportive che hanno finalità sociali e magari si basano sul volontariato? Sui social network sono in tanti a inneggiare a partite dove a trionfare è il gioco più che il risultato. Eppure a nessuno piace uscire dal campo sconfitto.
Di competizione ed educazione abbiamo parlato con Marco Giustinelli, responsabile della comunicazione per il calcio a cinque del Comitato regionale Lazio Lega nazionale Dilettanti. Lo abbiamo intercettato durante una delle presentazioni del suo nuovo libro, Organizzare e comunicare. La scelta vincente nello sport, nel calcio e nella vita (Pioda ed. 2018). Giustinelli ha fondato insieme ad altri genitori un’associazione di calcio a cinque, l’Atletico Pavona – di cui è stato a lungo presidente e dirigente – che fin dalle origini ha dato la possibilità a bambini con diverse difficoltà di fare sport a costi vicinissimi allo zero.
Quale dovrebbe essere la finalità ultima di un’associazione di calcio sociale?
«Lo sport è un’agenzia educativa al pari di famiglia, scuola, oratorio. Quindi la finalità da perseguire rimane l’attenzione alla persona. È assolutamente necessario dare a tutti i bambini e ragazzi le stesse opportunità di scendere in campo e di divertirsi. Tanto che la scuola calcio federale non contempla classifiche. Credo che il problema non sia rappresentato tanto dai ragazzi, quanto da noi adulti che proiettiamo frustrazioni e aspettative sui nostri figli».
Perché un giocatore di talento dovrebbe accettare serenamente di essere sostituito per far posto a un coetaneo meno capace?
«Perché fa parte di una squadra. E in un gruppo il talento, se non viene messo al servizio del collettivo, rimane una sterile esibizione. Per arrivare a questo occorre un percorso di educazione al servizio. In questo l’allenatore ha un ruolo determinante: oltre a dover essere un tecnico preparato, deve ricoprire il ruolo di educatore e di testimone dei valori che lo sport deve rappresentare».
Ma che messaggio arriva a un giocatore non molto bravo? Che tutti hanno un’opportunità o che non importa l’impegno, tanto si gioca lo stesso?
«Poter giocare tutti non vuol dire dover giocare tutti comunque. Un bambino è un cantiere in costruzione e va condotto per mano da adulti responsabili. Tutto va meritato. Scendi in campo se ti sei allenato con assiduità, se ti sei impegnato al massimo, se hai rispettato i compagni e il tuo allenatore. I minuti in campo sono una conquista, non un regalo da un’istituzione buonista. Essere dotati è una componente indipendente dalla persona. Il sudore no. Va sempre premiato il sacrificio e gestito il talento».
Non è raro che i più bravi disertino gli allenamenti e le riserve invece siano più assidue. Cosa preferire, costanza o rendimento?
«Un allenatore che permette che nel suo gruppo passi il concetto che se sei più bravo puoi passare sopra le regole, dovrebbe cambiare immediatamente mestiere. Facendo così danneggia tutti. Sia i più bravi, perché non li aiuta a potenziare le loro doti e li limita nella fase di crescita e maturazione dal punto di vista umano e caratteriale. Atleti di livello come Cristiano Ronaldo, Dino Zoff o Miro Klose hanno sempre fatto della costanza e dell’applicazione le basi del proprio rendimento. Sia coloro che potrebbero avere delle chance solo attraverso l’impegno costante. La coerenza, anche se faticosa, è l’antidoto a tanti disastri e fallimenti».
Come spiegare a un padre o a una madre che il proprio figlio, in una determinata partita, non è stato all’altezza di entrare in campo?
«Condividendo sin dall’inizio la mission con atleti e famiglie. Se vengono evidenziati principi e valori alla base della nostra azione, il problema non dovrebbe sussistere. Senza contare che i numeri ci dicono che in Italia solo un calciatore su 40mila arriva al professionismo. Questo vuol dire che praticamente tutti i nostri ragazzi, anche i più bravi, potranno vivere il calcio solo come un meraviglioso hobby, non come competizione».
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