CON IL TEATRO A REBIBBIA (E FUORI) LE DONNE RITROVANO SE STESSE

L'associazione Per Ananke, attraverso due progetti, coinvolge chi è ancora in carcere e chi ne è appena uscito. E deve ricostruirsi una nuova vita

di Ilaria Dioguardi

Nel 2013 ha inizio la collaborazione tra la Casa Circondariale Femminile di Rebibbia e la compagniaLe Donne del Muro Alto a cura dell’associazione Per Ananke e della regista Francesca Tricarico, coordinatrice del progetto. «Facciamo teatro a Rebibbia da sette anni», racconta. «Quest’anno portiamo avanti due progetti: uno all’interno, nella sezione dei reati comuni, con le signore detenute e un altro all’esterno, con le signore uscite dal carcere che sono in detenzione alternativa».

Il teatro: un aiuto per le ex detenute

«Il progetto fuori al carcere è molto importante, per loro e per noi. Seguiamo queste donne, che sono ai domiciliari o in affidamento, nella fase del ritorno alla vita all’esterno». “Le Donne del Muro Alto” ha una sede e il Magistrato di sorveglianza ha autorizzato ognuna delle signore a fare gli spostamenti da casa al luogo delle prove. «È  un risultato grandioso per noi e per loro, oltre che per quest’attività teatrale riconosciuta al pari di un’attività lavorativa. Di solito si possono muovere solo per visite mediche eccezionali e per andare in tribunale. Tutte le donne hanno grande entusiasmo, forza e determinazione nel portare avanti un lavoro, iniziato nel carcere di Rebibbia, con lo spettacolo “Ramona e Giulietta”. Abbiamo fatto un nuovo allestimento e avremmo dovuto portarlo sul palcoscenico quest’anno, ma a causa della pandemia non ci siamo riuscite». Hanno allora deciso di farne una versione audiolibro, hanno già fatto una prima registrazione e stanno proseguendo nella parte finale, in attesa di  arrivare all’allestimento scenico dello spettacolo non appena l’emergenza sanitaria lo permetterà.

 

teatro a Rebibbia
Francesca Tricarico

«L’uscita dal carcere è il momento più delicato per queste donne, tornano nella società e toccano con mano le difficoltà e le problematiche di cui spesso parliamo negli spettacoli, anche se protette dal racconto», spiega Francesca Tricarico. «Medea diventa l’occasione per parlare del problema delle donne lontano dai figli e dell’abuso degli psicofarmaci, Amleta diventa il pretesto per raccontare cosa significa “essere mogli e sorelle di”, all’interno di una Sezione Alta Sicurezza. Qui ci troviamo ad incontrare le difficoltà del mondo esterno ad accogliere chi ha avuto problemi con la giustizia, ma anche le difficoltà di un reinserimento di chi è abituato a muoversi in uno spazio e in un tempo diversi rispetto a quello esterno. Ad esempio, registriamo le difficoltà per alcune donne di prendere i mezzi pubblici per venire alle prove: per chi è stato tanti anni chiuso in un carcere anche i rumori sono difficili da sopportare; nel periodo particolare che stiamo vivendo, il mondo sembra più lento, ma per loro va ad una velocità estrema».

Quando si esce da una detenzione, bisogna affrontare anche tante difficoltà economiche ed affettive: molte di loro non trovano più una famiglia ad accoglierle dopo il carcere. Tutto questo si cerca di incanalarlo all’interno del laboratorio, il teatro diventa lo strumento per potersi esprimere, anche se le storie sono apparentemente lontane dalle loro i sentimenti sono gli stessi: gioia, dolore, nostalgia, amore.

Le donne che seguono questo progetto sono al momento sei: quattro in detenzione alternativa e due ex detenute che sono libere. Stanno lavorando su “Ramona e Giulietta”, rivisitazione di Romeo e Giulietta, che racconta l’amore tra due donne in carcere (lo abbiamo raccontato qui) «Nel 2017 Rebibbia è stato il primo carcere femminile italiano a celebrare un’unione civile tra donne. “Ramona e GIullietta” ha permesso un confronto bellissimo, che ci ha aiutato a far cadere i muri della diffidenza sia di chi viveva l’amore tra donne sia di chi non l’approvava. Fino a che abbiamo deciso di continuare a raccontarlo anche fuori».

Il teatro a Rebibbia per superare la tensione

Da settembre il laboratorio de Le Donne del Muro Alto si svolge in presenza in carcere due volte a settimana, dopo lo stop dovuto al lockdown. «Ovviamente le difficoltà ci sono, non è facile fare teatro con le mascherine, e noi facciamo dei laboratori molto “fisici”. È un cambiamento che stiamo cercando di trasformare in una risorsa. Nei mesi estivi abbiamo continuato a lavorare attraverso le mail: davo dei compiti alle mie attrici, per portare avanti un lavoro di scrittura e di ricerca, grazie alla biblioteca presente nel carcere».

 

teatro a Rebibbia
Teatro a Rebibbia: un’immagine d’archivio

Adesso stanno lavorando alla registrazione di un audiolibro, ad una trasposizione poetica del training teatrale e ad un nuovo testo che vorrebbero portare in scena l’anno prossimo.
In carcere si respira una tensione generale, anche inconscia, una grande paura di contrarre il virus in un luogo ristretto. Rebibbia femminile non ha avuto grandi problemi finora a livello sanitario, ma a livello emotivo ovviamente le difficoltà si riscontrano. Le visite ai parenti sono state interrotte nei mesi di chiusura totale, poi sono riprese, con il distanziamento, il divieto di toccarsi e l’uso delle mascherine.

La Casa dell’Affettività

«Lo spettacolo “Ramona e Giulietta” de “Le Donne del Muro Alto” parla dell’affettività, della differenza tra chi ha un amore in carcere e la rabbia delle altre, che non possono vivere la propria affettività perché hanno i loro affetti fuori», dice Tricarico. «Questo testo l’abbiamo scritto poco prima che venisse realizzata nel carcere la Casa dell’affettività».

 

La casa dell’affettività nel Carcere di Rebibbia (foto ALESSANDRO LANA)

La micro-architettura di legno è nata all’interno del progetto G124, che l’architetto Renzo Piano promuove e finanzia. Un progetto concentrato su piccoli interventi nelle periferie, avviato dall’architetto genovese non appena è stato (nel 2013) nominato senatore a vita. Il gruppo di lavoro che ha scelto di lavorare presso la Casa Circondariale femminile di Rebibbia è composto dagli architetti Tommaso Marenaci, Attilio Mazzetto, Martina Passeri, coordinati da Pisana Posocco, docente di progettazione architettonica all’Università Sapienza (Dipartimento Architettura e Progetto). «Il Modulo per l’affettività e la maternità, M.A.MA., nasce dall’idea di fornire un ambiente accogliente, familiare ed intimo per i colloqui all’interno del carcere, un luogo dove le madri detenute possono vivere dei momenti di vita normale assieme alla loro famiglia», spiega Posocco. La Casa dell’Affettività è uno spazio che ricrea la dimensione domestica. «Il progetto è nato dall’idea di poter realizzare un prototipo grazie anche all’impiego di risorse e strutture produttive presenti all’interno degli istituti penitenziari italiani, dove i detenuti lavorano e imparano un mestiere utile per il loro reinserimento sociale. È stato, quindi, scelto un sistema costruttivo principalmente a secco, con una posa in opera facilitata, in modo da ridurre al minimo i tempi della realizzazione e permettere lo svolgimento delle lavorazioni da parte di manodopera non qualificata. A noi si sono poi aggiunte molte persone, è stata fondamentale la sinergia con il Dap, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed in particolare con l’ufficio tecnico allora diretto dall’arch. Ettore Barletta; va anche ricordata la Casa Circondariale di Viterbo la cui falegnameria, diretta da Eriferto Berti, ha collaborato alla realizzazione del manufatto».

CON IL TEATRO A REBIBBIA (E FUORI) LE DONNE RITROVANO SE STESSE

CON IL TEATRO A REBIBBIA (E FUORI) LE DONNE RITROVANO SE STESSE