CONTRO LA MISOGINIA SUI SOCIAL, RIPARTIAMO DAL LINGUAGGIO
Le donne sono tra i soggetti più colpiti dall'hate speech: serve l'impegno di tutti per cambiare. L'esperienza di Hella Network
29 Aprile 2021
La “caccia alle streghe” sembra non esser mai finita. Certo, le donne non vengono più accusate di stregoneria e arse vive, ma basta guardare ai social media, oltre che ad alcune riviste, pubblicità e giornali, per rendersi conto di quanto la misoginia sia ancora un fenomeno preponderante nelle comunità.
Dalle rilevazioni sull’odio online della quinta mappa dell’intolleranza di Vox-Osservatorio Italiano sui diritti, emerge che gli attacchi contro le donne sono stati “forti, continuati e concentrati”. In particolare, l’Osservatorio, che dal 2016 si occupa di monitorare periodicamente i tweet, ha rilevato che, tra marzo e settembre 2020 su un totale di 565.526 tweet negativi estratti, il 49,91% ha avuto come bersaglio preferito le donne. Sono loro una delle categorie più odiate e discriminate.
Professioniste per la parità
Una triste storia, che si ripete da anni e che “deflagra” in ambito social, dove i sentimenti misogini e il timore per le conquiste delle donne si esprimono con più aggressività ed evidenza. Tuttavia, proprio i social hanno rappresentato e continuano a rappresentare per le donne un luogo proficuo per far rete, condividere, mobilitare e costruire vie alternative. Dai noti movimenti femministi “Se Non Ora, Quando?” e “Non una di Meno” a community più piccole come “Una Donna a Caso” o circoscritte, ad esempio, all’ambito ecclesiale, quale è “‘Donne per la Chiesa”, fino ad arrivare a veri e propri collettivi nati grazie ad appelli lanciati sul web.
Come Hella Network, una community nata a fine ottobre del 2019 che conta, al momento, oltre 1.700 professioniste e professionisti della pubblicità, del marketing, dell’editoria e del giornalismo. «Tutto ha avuto inizio con un articolo scritto sul mio blog, dove riflettevo su una comunicazione ancora così piena di stereotipi, soprattutto di genere», racconta Flavia Brevi, pubblicitaria e fondatrice del network. «Così ho lanciato un’idea: e se le professioniste si unissero per avere più forza nelle richieste e anche per chiedere non solo una comunicazione libera dagli stereotipi, ma anche parità salariale, stesse possibilità di carriera e ambienti lavorativi inclusivi?».
Da qui la nascita di un gruppo Facebook seguitissimo, dove vengono condivise le campagne di sensibilizzazione e di denuncia realizzate dal collettivo. «Grazie ai social, comunità che sono sempre state zittite o lasciate ai margini oggi possono raccogliersi, formarsi, esprimersi e far sentire la propria voce più forte ed è per questo che adesso non ci si può più permettere di non usare un linguaggio inclusivo», prosegue Brevi. «Adesso tutti siamo obbligati a sentire le voci di tutte». Una voce che, a quanto pare, può provocare tedio e avversione, soprattutto quando esprime dissenso. «Nel contesto online – ma non solo – capita spesso che le donne che osano dissentire o prendere parola, vengano additate come delle frustrate sessualmente o con il ciclo in atto», commenta. «Queste sono solo alcune delle connotazioni di genere che abbiamo raccolto anche nella nostra “Guida al sessismo nascosto nei posti di lavoro”».
L’odio contro le donne
Insomma, anche sul web assistiamo all’imporsi di “pratiche verbali” atte a ristabilire un dominio di genere. Si tratta di critiche e insulti in cui al centro c’è quasi sempre la corporeità delle donne. «I commenti di body shaming, rivolti soprattutto a coloro che rivestono ruoli attivi e propositivi, rappresentano un altro modo di imprigionare la donna e di non lasciarla libera».
Accanto a questi atteggiamenti, nell’ultima mappa dell’intolleranza di Vox ha fatto recentemente la sua comparsa anche la rabbia contro le donne che lavorano, giudicate inadeguate e incompetenti. «È segno di paura e senso di inferiorità verso i talenti e la professionalità delle donne», commenta Brevi. «L’indipendenza economica spaventa perché ci rende libere».
Sempre sui social, altro consueto mezzo per ridurre le donne al silenzio e relegarle a posizioni subalterne, è la minaccia di stupro e violenza come metodo punitivo, quando dicono qualcosa di scomodo o esprimono dissenso. «Questo fa parte della cultura dello stupro in cui viviamo», spiega ancora. «Secondo questo impianto di pensiero, a una donna viene insegnato, crescendo, che lo stupro è un fatto “normale” e inevitabile se non sta attenta. Insomma, l’educazione è rivolta sempre e solo alle donne». A sostenere questa cultura, «c’è un linguaggio fatto di battute sessiste, minimizzazioni e oggettivazione sessuale».
Quale dunque l’antidoto contro la violenza delle parole? «Bisogna iniziare ad ascoltare chi vive sulla propria pelle gli stereotipi, mettendo in discussione quello che da sempre ci viene insegnato», conclude la fondatrice di Hella. «Ciò che ognuno di noi nel proprio quotidiano può fare è cambiare il linguaggio. Se non siamo disposti a fare questo, non siamo disposti a fare niente».
Una risposta a “CONTRO LA MISOGINIA SUI SOCIAL, RIPARTIAMO DAL LINGUAGGIO”
Mi púa e tantísimo questo artículo
Lavoro genere in Argentina e vorremo fare una attovita con una universita argentina su quesito punto
Malenaerrico@gmail.com