E SE IL VIRUS FOSSERO I MEDIA? ECCO PERCHÉ NON AVER PAURA DEL CORONAVIRUS
I media hanno gridato a paura e morte, oggi dicono abbiamo esagerato. Binotto: «Toni urlati e acchiappaclick invece di approfondimento e qualità»
27 Febbraio 2020
«Italia infetta». «Virus: il nord della paura». «Avanza il virus, nord in quarantena». «Contagi o morte, il morbo è tra noi». «Vade retro virus». Sono solo alcuni dei titoli dei maggiori quotidiani nazionali di qualche giorno fa (a voi la scelta della palma del più indecente), quando la notizia che il Coronavirus si era manifestato in Italia e aveva cominciato a fare alcune vittime è, letteralmente, esplosa sui media. Proprio oggi, mentre stiamo scrivendo, pare che stiano facendo marcia indietro, ammettendo di aver esagerato. Che i media siano lo specchio della psicosi che si sta propagando nel nostro paese, o che la stiano alimentando, è un dato di fatto che l’argomento Coronavirus sia stato trattato dai mass media in modo sensazionalistico. Ma perché succede tutto questo?
Coronavirus e media: la ricerca dell’attenzione
Abbiamo parlato con Marco Binotto, sociologo dei processi culturali e comunicativi, docente dell’Università La Sapienza di Roma, di come i media stanno affrontando il tema chiave di questi giorni. A partire dai media tradizionali, in particolare da quei quotidiani che, si sarebbe detto fino a poco tempo fa, fanno questo per vendere più copie, anche di copie non ne vendono poi molte. «I grandi eventi, le notizie come questa che riempiono per giorni tutto, dalle pagine dell’informazione fino alla conversazione al bar, sono l’unico momento in cui i media riescono a risuonare l’uno con l’altro» riflette Marco Binotto. «Sanremo e grandi eventi, come le Olimpiadi, sono le uniche occasioni in cui si sente un’idea di comunità e il bisogno di informazione, è il modo sicuro che hanno i media per essere ascoltati. Per cui si attivano tutti i media, che in questi momenti riescono ad avere quell’attenzione che nessuno oggi, non solo loro, riesce più ad avere. La ricerca dell’attenzione è uno dei tratti dominanti della nostra epoca. Da qui nasce il fatto che tutti i media, soprattutto i quotidiani che hanno risentito più della crisi, tendano a utilizzare questi eventi ed altri, come gli attentati terroristici, per catalizzare l’attenzione e tenere incollate le persone». Questo aspetto va unito ad un altro, al fatto cioè che i media ormai si siano uniformati verso un unico tono di voce. «Non esiste più il vecchio Corsera dallo stile paludato, distaccato e non enfatico», commenta Binotto. «Tutti i media hanno un linguaggio molto orale, enfatico, acchiappaclick. Questa non dovrebbe essere l’unica soluzione alla crisi ma, nell’asfittico mercato italiano, invece che puntare sul giornalismo di qualità e approfondimento la tentazione è quella di giocare al rialzo, all’urlo. Riguardo all’immigrazione si è messo in atto un meccanismo del genere: amplificare posizioni, dare spazio a voci che caricano il messaggio, al prevalere delle emozioni. Quando i governi e la politica tendono a seguire la stessa logica dei media, cosa piuttosto lampante, il cocktail è perfetto per trasformare qualsiasi problema in un’emergenza e qualsiasi epidemia in una pestilenza, come sta succedendo».
Il Coronavirus, i media e l’immaginario del virus letale
Da questa corsa al rialzo mediatica non si astengono i telegiornali, altro media messo in crisi dalle nuove tecnologie, che, dallo loro, in più hanno la forza delle immagini. Ma come la stanno usando? Alla tivù vediamo immagini di una Codogno deserta, desolata, che sembra uscita da un film horror o catastrofico, con immagini degne de L’alba del giorno dopo o The Day After. Se pensiamo che le televisioni, oltre che le parole, dispongono delle immagini per fare racconto, e che le immagini avrebbero la possibilità di documentare fedelmente la realtà, è paradossale che avvenga il contrario e si finisca per seguire altri immaginari. «Dieci anni fa Henry Jenkins scriveva Cultura convergente» ragiona Binotto. «Il fatto che convergano i media è già successo: ormai è tutto un unico media che poi segue varie diramazioni. Anche le storie stanno convergendo: tutto l’immaginario informativo sta seguendo quello dell’intrattenimento, quello cinematografico. Si fanno le fiction sul caso di cronaca e la cronaca segue linguaggi e immaginari cinematografici. Quando si parla di infezioni non solo le immagini, ma anche il linguaggio che usano per le titolazioni è fatto di metafore che evocano un mondo tra il film militaresco e quello dozzinale sul virus letale». «In più c’è questo immaginario delle malattie, che ormai è costruito sulla storia della paura occidentale di pestilenze, come la febbre spagnola, e sulle grandi malattie infettive, non ultimo, l’Hiv, che hanno costruito e sedimentato un immaginario molto potente e anche molto schiacciato» aggiunge il sociologo. «È difficile distinguere: dopo giorni si comincia a chiamare il Coronavirus come un’influenza, cosa che finora quasi non si diceva, ma nell’immaginario collettivo l’influenza, la malattia contagiosa sessualmente trasmissibile e la peste non hanno grosse differenze. Hanno un immaginario molto sovrapponibile e sovrapposto, con metafore molto simili, e con paure che si vanno a sovrapporre. Quando vedi l’ospedale, la mascherina e il medico bardato metti insieme la lebbra al raffreddore, l’immaginario cinematografico con la cronaca. Il risultato è che, per quanto puoi distinguere a parole, vai a creare uno spettro di paure molto schiacciato».
Uno scienziato su Twitter non fa lo scienziato
Rispetto ad altre epoche in cui sono esplose paure di massa, oggi è però tutto diverso. Oggi ci sono i social. Se già la stampa e la tivù sono sensazionalistiche, a volta poco informate, sui social chiunque, ancora meno informato di esperti e giornalisti, può dire la propria. E su una bacheca di Facebook ha lo stesso spazio e lo stesso peso. «È tutto più complicato e intrecciato» ci risponde Binotto. «È più difficile per gli attori esperti emergere. È la famosa disintermediazione, per cui tutti sembrano alla pari. Ma, soprattutto, tutti devono avere la stessa logica, che ormai uniforma tutti: ha abbassato il livello degli scienziati, che sui social devono diventare dei bulli ossessivi come Burioni, ma lo cito per dire che persino un virologo rispettabile è risucchiato nello stesso meccanismo mediale. Uno scienziato che sbarca su Twitter non fa più lo scienziato, ma deve parlare come gli altri. Così come il Corriere della Sera o il Tg1, quando arriva su Facebook, per emergere deve usare gli stessi trucchi, la stessa logica e lo stesso linguaggio degli altri. Credo nella capacità del pubblico di diventare piano piano più consapevole. Il problema è che il sistema e le sue regole tendono a non farlo, per cui non c’è più nessuno che resiste. Si privilegia l’urlo, la paura, l’ossessione della visibilità. Lo diceva McLuhan cinquant’anni fa e si sta realizzando: diceva che il Villaggio Globale non sarebbe stato il posto di pensieri ragionevoli e sensati, ma il posto dove si alimentavano mitologie e paure di massa».
Sigilliamo i porti
Il sistema funziona così per la sua natura. Ma ci sono anche alcuni soggetti, soprattutto partiti politici, che tendono volutamente a fuorviare il discorso per fini precisi. «Da una parte c’è un riflesso condizionato» riflette Binotto. «C’è un riflesso quasi automatico: quando la bestia ti dice che per funzionare sui social devi parlare del tema del momento e il tema del momento è questo finisci per farlo. E per accentuare e accodarti ai temi del giorno, per cui chi è più bravo in questo strumentalizza e viene strumentalizzato perché è sempre quello che deve starci. Lo fa mantenendo la propria narrazione, e se quella narrazione è di chiusura allora il riflesso condizionato si vede anche su questo. E quella parola chiave, sottilmente razzista o apertamente discriminatoria, di chiusura dei porti diventa facilmente “sigilliamo i porti”, perché non può essere la stessa, ma diventa la stessa metafora, la stessa narrazione che applico a tutto. E se dal punto di vista mediatico è perfetto, dal punto di vista politico è terribile. Perché non esiste un rimedio per tutti i problemi, non può esserci una politica di chiudere e separare che vadano bene per tutto».
Il razzismo è sempre un boomerang
L’effetto collaterale del Coronavirus, unito a questo modo di pensare, è che si siano scatenati in Italia i peggiori istinti, il razzismo, quello che si è manifestato con una serie di episodi nei confronti dei cinesi, o dei filippini creduti cinesi, ma anche degli italiani all’estero (gli italiani al festival di Berlino, o i tifosi della Juventus a Lione). «È il rischio di tutte le malattie considerate inguaribili» commenta il sociologo. «La malattia ha come metafora l’alieno, la malattia per eccellenza è quella che viene da fuori, dallo sporco, dal diverso: accade con l’Aids, ma accadeva con la peste del Manzoni che il primo a rimetterci, a essere incolpato, sia chi è parte di una minoranza. È una lezione storica dalla quale, purtroppo, non si trae insegnamento. Ogni nuova pestilenza sembra peggiori la situazione, l’unica lezione è soffiare sempre più sul fuoco. Questa sarebbe la cosa su cui soffermarsi. Il razzismo è sempre un boomerang, da discriminatori si diventa oggetto di discriminazione, e alla lunga non conviene a nessuno. Sarebbe il caso di chiedere di avere più responsabilità». Ma qual è l’errore più significativo che è stato fatto, da istituzioni e media, nel gestire questa storia? «Un tweet di Luca Bottura ha detto che se ripeti 60 volte state tranquilli il risultato è l’agitazione» ci risponde Marco Binotto. «Le misure preventive, quelle più precauzionali di tutti, chi le fa le pensa come tranquillizzanti, ma nella psicologia delle masse non funziona così. La mascherina è una precauzione, ma aumenta la preoccupazione in chi la vede, non capisco come mai non si comprenda. È ancora cosi dopo decenni. Si pensa di tranquillizzare con delle misure per evitare la preoccupazione che sortiscono l’effetto contrario».
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