COSÌ IL COVID HA MESSO IN CRISI I LAVORATORI CON DISABILITÀ

Un terzo ha smesso di lavorare e non si sa cosa accadrà nella fase 3. Uno studio Fish/Iref

di Ilaria Dioguardi

JobLab è un progetto della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap (FISH), iniziato alla fine del 2018. Il nome, per praticità, è ridotto a 6 caratteri, ma il sottotitolo è molto significativo: Laboratori, percorsi e comunità di pratica per l’occupabilità e l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. Si è concluso con il digital talk JobLab Day.

JobLab è stato riconosciuto meritevole di finanziamento dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, attraverso il Fondo per il finanziamento di progetti e attività di interesse generale nel Terzo settore. Con la certezza che l’ambito del lavoro sia uno di quelli in cui si possano maturare le pari opportunità per la persona, ma sia anche il luogo in cui sono frequenti alcune disparità di trattamento, che travalicano molto spesso nella discriminazione, FISH ha voluto indagare, capire, confrontarsi con i territori. Per approfondire, è stata attivata una serie di attività di ricerca, da cui prendere molti spunti per il presente e per il futuro.

 

I lavoratori con disabilità nel lockdown

I media hanno parlato molto di come il lockdown abbia cambiato il lavoro, dimenticando però di analizzare l’impatto dell’emergenza COVID sui lavoratori con disabilità. L’indagine di FISH/IREF cerca di colmare questa lacuna. L’instant report di FISH e IREF, intitolato “La pandemia vista dai lavoratori con disabilità“, riguarda tutti i lavoratori con disabilità o con esiti di patologie oncologiche o immunodepressioni, cioè con condizioni potenzialmente a rischio. Sono state intervistate 500 persone nella settimana tra l’11 e il 18 maggio scorsi: a FISH è sembrato indispensabile raccoglierne le opinioni, le strategie, le difficoltà.

Negli ultimi mesi, infatti, sono totalmente cambiate le modalità di lavoro: milioni di lavoratori hanno scoperto lo smart working, altri hanno lavorato in presenza con nuove regole di prevenzione, altri ancora hanno sospeso ogni attività. Anche per i lavoratori con disabilità il lockdown è stato un periodo complesso: alcune aziende sono rimaste aperte, altre hanno attivato il lavoro agile, ma quasi tutte hanno fatto ricorso agli ammortizzatori sociali. Solo una persona intervistata su tre ha avuto diritto al lavoro agile, più di un quinto ha continuato a lavorare in presenza.

lavoratori con disabilità
Dati Fish/Iref

I lavoratori che durante la “Fase 1” hanno continuato a recarsi in sede, hanno riportato problemi sulla capacità delle aziende di assicurare adeguate misure preventive: solo un lavoratore su due ha riferito di aver ricevuto materiali di protezione individuale e di aver avuto indicazioni rispetto alle dovute distanze interpersonali da adottare.
I dipendenti delle aziende che non hanno attivato il lavoro agile si sono trovati di fronte a una scelta: continuare a lavorare o usare permessi, giorni di malattia o altre soluzioni? Quasi un terzo (32,5%) degli occupati con disabilità ha smesso di lavorare, nonostante l’azienda avesse attivato lo smart working. Ciò ha riguardato soprattutto chi era attivo in aziende dove era prevista una parte di lavoro in presenza. Per quasi un lavoratore con disabilità su due (45,5%) è arrivata la cassa integrazione, oltre il 70% degli intervistati è ricorso a congedi, permessi e altro per compensare l’impatto della pandemia.

«Abbiamo raccolto molte osservazioni, domande, preoccupazioni nei nostri sportelli, in questi mesi, rispetto ai lavoratori con disabilità o con quadri clinici a rischio», ha detto Carlo Giacobini dell’Agenzia E.Net (società nata per favorire le attività di rete delle organizzazioni delle persone con disabilità e dei loro familiari) e responsabile del progetto JobLab. «La maggior parte riguardavano il rischio di contagio e il pericolo di rimanere in azienda a lavorare. Siamo rimasti esposti ai dubbi di tantissime persone a causa di una combinazione di norme, non sempre chiarissime, e dall’altra parte orari di sportello di patronati, Caf, Inps che si sono notevolmente compressi per una serie di motivi legati al rischio Covid-19. In questa ricerca, organizzata in fretta alla fine del lockdown, troviamo confermate queste forti preoccupazioni. Avevamo voglia di mettere a disposizione di tutti alcune considerazioni sull’argomento. È da sottolineare il fatto che, in molti casi, i lavoratori con disabilità hanno preferito (o sono stati costretti a prendere) permessi lavorativi, congedi, ferie anziché lo smart working».

La selva di norme, opportunità e indicazioni aziendali ha disorientato molto le persone e questo vale per tutta la popolazione italiana. Per quel segmento che ha deciso di fare smart working, nella maggior parte dei casi i lavoratori si sono dovuti organizzare autonomamente: la percentuale di persone che hanno potuto usufruire di strumentazione tecnica fornita dal datore è stata del 25%, ciò ha portato un’organizzazione autonoma dei lavoratori.  «Forse c’è anche un problema di digital divide, che ovviamente riguarda non solo le persone con disabilità. L’elemento interessante è che, per coloro che hanno lavorato da casa, il giudizio è fortemente positivo, ritorna il tema della conciliazione vita-lavoro. Lo smart working è un tema meno critico in un quadro fortemente critico, sotto gli altri aspetti», ha affermato Gianfranco Zucca dell’IREF (Istituto di Ricerche Educative e Formative). «Nella nostra indagine si chiedeva un giudizio complessivo sull’operato del governo nel periodo di emergenza legato all’epidemia, il 56% dei lavoratori con disabilità ha espresso un giudizio completamente negativo. Probabilmente ciò è dovuto all’assenza di norme o interventi esplicitamente rivolti a persone con disabilità, o anche problemi di comunicazione nel riferire cosa si stava facendo».

La qualità del lavoro

Il tema della qualità del lavoro, negli ultimi anni, complice le ricorrenti crisi economiche, è finito in secondo piano. «L’attenzione è concentrata sulla “quantità” di lavoro che un sistema economico riesce a produrre», ha detto Gianfranco Zucca, che ha curato per conto di FISH, insieme a Luca Proietti, l’indagine sulle condizioni di lavoro delle persone con disabilità. «La sottoccupazione è un gravissimo problema per le persone con disabilità. Potrebbe sembrare inattuale parlare di qualità del lavoro, soprattutto in un periodo come questo, in cui ci attende un’altra grave crisi occupazionale. Con FISH abbiamo fatto una scelta molto forte, quella di applicare un modello di qualità del lavoro non specificamente pensato per persone con disabilità, ma elaborato per la popolazione generale, nella convinzione che questa scelta ci permettesse di confrontare i risultati dell’indagine con quelli della popolazione in generale».

lavoratori con disabilità
Dato Fish/Iref

Lo studio, il primo in Italia, realizzato via web tra febbraio e aprile di quest’anno, ha una copertura nazionale e ha sollecitato oltre 600 lavoratori con disabilità ad esprimere il proprio punto di vista sulle diverse dimensioni che compongono la qualità del lavoro (retribuzione, accessibilità, possibilità di carriera, relazioni con i colleghi ecc.). Il 42% dei lavoratori con disabilità intervistati risiede in un’area metropolitana, i settori occupazionali sono soprattutto il terziario e la pubblica amministrazione. A fronte di titoli di studio elevati (i laureati sono il 42%, il 50% tra le donne), c’è un problema di sovra-qualificazione, che si manifesta quando una persona occupa una posizione lavorativa per la quale è richiesto un titolo di studio inferiore: un intervistato su 3 riporta di avere più competenze del necessario.

Per valutare la soddisfazione lavorativa degli intervistati è stato creato un indice di sintesi (Indice di Soddisfazione Lavorativa – ISL): il 47,9% del campione fa registrare un ISL alto, il 32,8% medio, il 19,3% basso. La soddisfazione lavorativa è solo in parte una questione di ergonomia e accessibilità del luogo di lavoro, che “sposta” solo il 10% di soddisfazione per il lavoro: ha un alto ISL il 53,1% delle persone che lavorano in aziende totalmente accessibili, a fronte del 42% di coloro che operano in ambienti dove è presente almeno uno spazio non accessibile alle persone con disabilità. A pesare in maniera significativa è la dimensione retributiva: considerando i soli lavoratori full time, ha un alto ISL il 58,2% degli intervistati che guadagna più di 1.500 euro al mese.

Per i lavoratori con disabilità la qualità del lavoro è soprattutto una questione di relazioni e di partecipazione, l’ISL raggiunge i livelli più alti tra gli intervistati impiegati all’interno di aziende o amministrazioni nelle quali colleghi e superiori rispettano i tempi e i ritmi di lavoro delle persone con disabilità. «Questo è uno dei risultati importanti dello studio, abbastanza inatteso: ci aspettavamo che potesse pesare in maniera maggiore la questione ergonomica e dell’accessibilità, invece come abbiamo visto è un elemento importante ma non determinante come lo sono le relazioni», ha spiegato Zucca. «Negli ambienti lavorativi in cui ci sono relazioni positive, le persone con disabilità hanno la possibilità di esprimere e dare il loro contributo all’azienda, purtroppo questi ambienti di lavoro non sono la norma. Una questione sicuramente molto importante riguarda le esperienze di discriminazione: il 57% dichiara di aver fatto esperienze di discriminazione sul luogo di lavoro; è un fenomeno che riguarda più le donne degli uomini (65% contro 46%), si è trattato soprattutto (34%) di discriminazioni relative alla condizione di disabilità della persona e nel 29% di questioni legate ai diritti del lavoratore».

 

Rivedere le norme

«Sicuramente è necessaria una riforma della normativa, che è antica e deve adeguarsi» afferma Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. «Poi serve l’inclusione dei lavoratori con disabilità, che devono essere considerati un’opportunità e perché ciò avvenga ci vuole una campagna di comunicazione e una voglia di cambiare un modello culturale. Bisogna creare un nuovo modello organizzativo, è questo il futuro».
«Io ho lavorato molto per la legge 68, che ritengo una buona legge, tanto che ce l’hanno copiata in Germania e Francia. Noi partivamo da un’aliquota precedente la legge 68 del 15% che riguardava gli invalidi civili, poi è scesa al 7%», spiega Nina Daita, Responsabile Disabilità CGIL Nazionale. «Non sono assolutamente d’accordo ad azzerarla, non ci sono le condizioni culturali perché le aziende assumano a prescindere. Non credo proprio che sia questo il momento, oltretutto, con questa grande crisi economica. C’è un pregiudizio diffuso nei confronti delle donne con disabilità: le persone vedono prima di tutto la disabilità e poi tutto il resto, anche se sei una donna emancipata e brillante. Siamo discriminate in tutto, le condizioni culturali sono ben lontane dall’essere realizzate». Solo il 32,3% delle donne non disabili lavora contro il 56,8% degli uomini.

«Dobbiamo riprendere in mano quel pacchetto di norme che era in cantiere e che sono rimaste ferme al guado, prima dell’emergenza, in tema di tutele, anche di conciliazione vita-lavoro per i caregiver, che non hanno avuto effettiva indicazione», ha detto Paolo Bandiera, Direttore Affari Generali-Advocacy di AISM, Associazione Italiana Sclerosi Multipla. «Una prima sfida di FISH è fare in modo che i dati non rimangano un’esperienza, ma che istituzioni e parti sociali analizzino il fenomeno per costruire con un approccio empirico il miglior livello di risposte possibili». Mancano, inoltre, dei livelli essenziali garantiti di funzionamento dei centri per l’impiego, anche in relazione al collocamento mirato. «Molto di quello che abbiamo elaborato prima del Covid-19 va reso concreto ricontestualizzandolo. Le sfide sono diverse. Bisogna uscire da un approccio di improvvisazione che c’è stato durante l’emergenza, anche comprensibile, e si trasformi in una visione di lungo periodo, con un investimento sulle norme: bisogna fare tesoro di quello che c’è stato, concretizzando le norme rimaste a metà. Il disability management deve essere una cultura, un comportamento aziendale che non necessariamente poggi sulla presenza di un unico ruolo, ma dobbiamo costruire modelli, processi, percorsi».

«Durante la prima fase dell’emergenza sanitaria i lavoratori con disabilità hanno sopportato una serie di disagi aggiuntivi a quelli subiti dai loro colleghi. Il nostro timore è ora rivolto alla terza fase. È in essa, quando la crisi economica inizierà a mordere con ancora maggiore ferocia, che i lavoratori con disabilità, ma anche con una situazione sanitaria più a rischio, rischieranno davvero di essere marginalizzati ed espulsi dal mondo del lavoro», ha detto Vincenzo Falabella, presidente FISH. «Abbiamo una grande quantità di dati, attraverso il coinvolgimento di una rete associativa li metteremo a disposizione all’esterno attraverso tutti coloro che vorranno avviare un confronto costruttivo e propositivo per migliorare il nostro sistema».

 

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