DAI CAMPI ROM AL SELAM: Il COVID19 RENDE TUTTO ANCORA PIÙ DIFFICILE
È arrivato al Selam. Cosa potrebbe fare il Covid 19 nei campi Rom, se ci arrivasse? Chi è invisibile nella normalità, resta tale anche nell'emergenza
08 Aprile 2020
Profughi, transitanti, migranti e Rom, continuano a essere invisibili ai più, e nonostante siano le comunità più esposte in tempi di emergenza sanitaria, come quella che stiamo vivendo, la loro quotidianità è peggiorata drammaticamente nell’indifferenza istituzionale. Ne è un esempio Palazzo Selam, lo stabile in zona Romanina a Roma, occupato da profughi provenienti dal Corno d’Africa, diventato la prima zona rossa della Capitale. Ignorato dalle istituzioni fino a quando due dei suoi ospiti sono risultati positivi al Covid, e finito su tutti i giornali il giorno che è arrivato l’esercito a chiudere. Eppure l’S.o.s. lanciato dalle associazioni è risuonato forte e chiaro le scorse settimane: situazioni di promiscuità come lo sono gli edifici occupati, oppure i campi nomadi dove vivono i Rom, non possono permettersi di diventare focolai d’infezioni.
L’assistenza sanitaria nei campi rom
L’informazione generalista parla poco degli invisibili e quando lo fa, le notizie che vengono divulgate sono parziali o errate. Parte da questa argomentazione Alessandro Cerruti, della cooperativa Saturnino, impegnata nel progetto sociosanitario nei campi Rom e rifugiati del territorio Asl Roma 2, attività che lo porta ad essere testimone in prima persona di quello che sta accadendo alle minoranze in questi giorni di emergenza Covid. L’unità sociosanitaria, con a bordo un medico e un infermiere, gira per i campi di Salone e Ciampino e nel palazzo Selam, oltre a cercare di portare soccorso alle persone insediate negli anfratti di Roma est.
«La comunicazione e l’informazione che arrivano dalla stampa generalista spesso sono imprecise, ad esempio qualche giorno fa sentivo al telegiornale regionale che il campo di via Salviati non ha medicinali, ma questa è una cosa assolutamente non vera, abbiamo operato lì per 15 anni e abbiamo fatto iscrivere quasi tutti al Sistema Sanitario Nazionale; abbiamo aiutato loro a prendere il medico di base, e chi non ce l’ha, ha il tesserino STP (Servizio Sanitario per Stranieri). Inoltre l’ASL RM2 ha 5 ambulatori STP attualmente aperti dove chiunque in possesso di tesserino può andare».
Per chi non lo sapesse, via Salviati si trova in zona Collatina, all’interno del Grande Raccordo Anulare e dunque collegata direttamente con i servisti assistenziali. I problemi più grandi vengono riscontrati da chi vive nei campi che si trovano alle porte della Capitale, ma anche in questo caso il sostegno dell’ASL arriva attraverso il camper sociosanitario. «Per quanto riguarda Salone, andiamo personalmente perché, nonostante anche loro abbiano il medico, si trovano in una posizione geografica isolata dal resto e dunque li seguiamo personalmente, soprattutto gli anziani, che nonostante abbiano numerosi figli non vengono presi in carico dalla famiglia. Siamo presenti tutte le settimane per chi ha problemi cardiaci, per chi soffre di diabete e per chi ha bisogno di ricette».
I più difficili da intercettare
Che la situazione dei campi rom sia precaria è cosa nota: tra sovraffollamento e condizioni igieniche scarse, i nomadi sono vulnerabili non solo al Covid ma a numerose altre malattie. Secondo Alessandro Cerruti, però, grazie alle numerose campagne sulla salute come ad esempio quella riguardante i vaccini, i Rom che vivono nei campi, soprattutto quelli attrezzati, sono paradossalmente meno a rischio di altre realtà: molte famiglie non hanno grandi problemi di soldi, c’è chi percepisce il reddito di cittadinanza, e soprattutto conoscono i loro diritti sanitari «e ci tengono, ad esempio tanti Rom all’inizio dell’emergenza, sono andati all’ASL di via Bardanzellu a chiedere il vaccino: essendo abituati ad avere numerose vaccinazioni durante l’anno e ad essere martellati da campagne pro vaccino, accortisi dell’interruzione del servizio vaccini sono stati loro stessi a richiederli. A preoccupare di più sono le condizioni in cui vivono gli abitanti del Selam e le condizioni dei Rom rumeni.»
Per quanto riguarda i Rom rumeni che vivono nel sottobosco della Capitale, il loro abbandono è totale: vivono in rifugi di fortuna sulle sponde dell’Aniene o in edifici disabitati, ma intercettarli non è facile, perché sono sempre in movimento. «C’è un insediamento in zona Anagnina dove stanno veramente morendo di stenti. Nessuno gli porta niente, si possono spostare poco perché a differenza di altri Rom loro non hanno mezzi e sono i più poveri tra i poveri; hanno assolutamente bisogno di aiuto immediato, che ricevono solo dalle parrocchie e da Sant’Egidio. La loro situazione è abbastanza drammatica e risulta difficile aiutarli perché è un problema trovarli: ogni volta che vengono sgombrati loro si spostano, sono tanti e sono quasi tutti concentrati a Roma est. In più, non avendo documenti, è difficile anche inserirli nel sistema sanitario nazionale».
La chiusura del Selam
Contesti del genere non possono essere tollerati perché sono un rischio per tutti: «non si possono tenere in piedi situazioni così, che fanno rumore solo perché adesso c’è il Covid; noi abbiamo rilevato malattie, sia nelle occupazioni dei rifugiati e sia tra i Rom rumeni, che si pensava non ci fossero più. I rifugi di fortuna tipo il Selam Palace, 800 persone con 4 bagni, sono gravi sempre. Abbiamo tentato più volte di far accendere i riflettori su queste situazioni limite, ma a volte diventa anche controproducente, perché poi vengono sgombrati e finiscono in mezzo ad una strada senza una reale alternativa umana e dignitosa. Ora, tornando a Selam, la soluzione che hanno trovato è stata quella di metterli in quarantena per quindici giorni. Il giorno che l’esercito ha chiuso, noi con il camper eravamo lì, tanti ragazzi erano agitati poiché molti lavorano, purtroppo a nero, e se non vanno a lavorare per due settimane hanno perso il lavoro».
Si poteva evitare una situazione del genere senza aggravare situazioni di precarietà? Probabilmente sì. «Sono un paio di mesi che le associazioni si ponevano il problema che potesse succedere qualcosa, ma tanto non interessa a nessuno e, fintanto che quel qualcosa non succede, nessuno si muove.» E ancora una volta è stato il volontariato a fare il grosso del lavoro, nel momento in cui la crisi si è acutizzata «oltre all’associazione Cittadini del Mondo, i ragazzi Médecins du Monde, sono stati, e lo sono tuttora, eccezionali nel gestire la situazione al Selam.»
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