COVID19. I BAMBINI DELL’ASSOCIAZIONE KIM HANNO BISOGNO DI AIUTO. ECCO PERCHÈ
Accoglie bambini che hanno bisogno di cure e terapie che sono stati rimandati. Alcuni non possono rientrare nei loro Paesi. E molte attività sono sospese
01 Aprile 2020
«Il tempo passa, le malattie non aspettano. E abbiamo paura che non ci sia più un domani per questi bambini». Bibi si occupa della comunicazione per l’associazioe KIM, una onlus che dal 1997 aiuta i minori gravemente malati. La sua voce diventa il mezzo per diffondere un grido di dolore che arriva all’anima: «Più persone sanno che stiamo soffrendo, più resisteremo». Nei giorni del Coronavirus tante associazioni si chiedono cosa ne sarà di loro, ma soprattutto che fine faranno quei servizi essenziali alla vita delle persone in difficoltà. Se oltre all’economia si ferma anche la macchina della solidarietà, la crisi rischia di diventare ancora più profonda.
L’associazione KIM
KIM accoglie, tutela e ospedalizza minori italiani o stranieri gravemente ammalati, che vivono in condizioni di disagio economico e sociale. Spesso provengono da Paesi in guerra o senza strutture sanitarie adeguate.
Il progetto è nato 23 anni grazie a un gruppo di amici, che si sono recati in Albania come volontari e sono rimasti sconvolti dall’emergenza umanitaria del 1997. Lori, il primo bambino salvato, aveva 6 anni. Oggi la realtà si è strutturata con 8 dipendenti (personale specializzato, come gli operatori) e decine di volontari.
I piccoli e le loro famiglie vengono sostenuti in tutto il percorso, dalla richiesta d’aiuto ai contatti con gli ospedali, fino all’ospitalità nel proprio centro in via di Villa Troili, a Roma, dove non vengono mai lasciati soli. È tutto gratis per chi riceve assistenza, ma esistono dei costi vivi per garantire l’efficienza dell’organizzazione. A conti fatti, la KIM avrebbe bisogno di 25 mila euro al mese. Soldi che solitamente riceve da donazioni, eventi pubblici e campagne di raccolta fondi.
L’emergenza
Realtà come questa rischiano di scomparire perché con il Covid-19 la macchina della solidarietà si sta lentamente arrestando.
«Gli ospedali sono saturi e gli interventi programmati per alcuni dei nostri bambini sono stati rinviati. I rientri nei Paesi d’origine sono sospesi per via dei blocchi aerei, le permanenze in Casa di Kim si allungano e i costi per l’accoglienza salgono a dismisura. In queste condizioni l’associazione KIM rischia di fermarsi. I nostri bambini rischiano di rimanere soli, senza aiuto. Non possiamo permetterlo» è l’appello diffuso sul web.
Il presidente Paolo Cespa ci ha confidato le sue preoccupazioni: «Non dobbiamo lottare solo per i bambini che oggi sono qui con noi. Ma anche per quelli che verranno. Le voci degli ultimi ci interpellano, si affidano a noi, non possiamo lasciarli. Gli abbiamo promesso una speranza. E adesso?».
Da ex boy scout, Cespa è stato tra i fondatori di KIM, nome ispirato dal romanzo di Kipling, che racconta la storia di un orfano intraprendente e pieno di sogni. «Volevamo dare ai bambini le possibilità di rigiocare le carte della vita. Non riceviamo sovvenzioni, questo miracolo esiste e vive grazie a chi crede nel nostro lavoro».
Il dramma dei ritardi nelle cure
Mahmood, Dabba, Paula, Pam e tanti altri fanno parte di un lungo elenco di bambini – ben 450, di 60 nazioni differenti – arrivati a Roma negli ultimi 23 anni. Tutti hanno o hanno avuto patologie molto gravi, incurabili nei loro Paesi d’origine. L’associazione KIM li intercetta attraverso i social, le mail, i missionari, i militari in missione di pace e il passaparola. La parte più difficile è farsi inviare la documentazione medica, insieme alla dichiarazione di non curabilità in Patria. Una volta che il fascicolo sanitario arriva a Roma, l’associazione si mette in contatto con gli ospedali del territorio – in particolare con il Bambino Gesù e con il Policlinico Gemelli – per capire la disponibilità e le tempistiche di intervento.
È una corsa contro il tempo: i piccoli solitamente hanno bisogno di operazioni, trapianti o chemioterapie molto urgenti e qualsiasi ritardo nella procedura può metterne a rischio la vita. Ci sono casi (per fortuna meno frequenti) in cui bisogna anche pagare l’operazione.
KIM sistema le pratiche, accoglie il bambino e un genitore (solitamente la madre), sostenendo le spese, favorisce l’arrivo in ospedale, accompagna i pazienti nel decorso post ospedaliero e poi li fa tornare a casa. Nel frattempo, cerca di garantire un ambiente familiare nel centro in zona Aurelia, dove si cucina e si mangia insieme. Quando non sono in ospedale, mamme e figli hanno anche l’opportunità di imparare l’italiano, oltre a regalarsi momenti di animazione e serenità.
Ce la faremo?
«Adesso è tutto fermo. Per garantire la sicurezza di chi si trova qui, abbiamo sospeso le attività con i volontari», è il racconto di Corrado Roda, che ha scoperto KIM nel 2008 e oggi è operatore nel centro di accoglienza. «Ma i bisogni di una famiglia allargata come la nostra non si possono fermare. C’è da fare la spesa, accudire i piccoli, garantire loro socializzazione, sostenere anche psicologicamente le mamme. Tre bambini che hanno finito il percorso di cure sono rimasti bloccati: Meghan, Paola e Mahmood dovrebbero tornare in Albania, Messico e Siria dalle loro famiglie, ma non possono. Altri stavano aspettando di entrare in ospedale, ora non possono più anche se devono fare delle operazioni importanti. Stiamo cercando di aiutarli a superare paure e angosce. Non è facile».
Oggi, dopo aver fatto colazione, operatori e bambini stanno preparando uno striscione. Ci scriveranno sopra “andrà tutto bene” per darsi coraggio a vicenda. «Questa casa è sempre stata un via vai di persone. Quello che fa più male, adesso, è questo silenzio assordante».
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Le immagini di questo articolo sono state gentilmente fornite dall’associazione Kim e sono state scattate prima dell’emergenza.
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Una risposta a “COVID19. I BAMBINI DELL’ASSOCIAZIONE KIM HANNO BISOGNO DI AIUTO. ECCO PERCHÈ”
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Paolo Cespa