DEPRESSIONE. ECCO COME AFFRONTARE LA MALATTIA PIÙ DIFFUSA
Imparare a riconoscere i sintomi e soprattutto non avere paura dello stigma... Il male oscuro non è poi così oscuro
18 Maggio 2017
Un “male oscuro”. O forse no. Secondo un recente allarme diffuso dalla Società Italiana di Psichiatria, la depressione si candida a diventare “la prima malattia più invalidante al mondo” nel non così lontano 2030. Con “altissimi” costi sociali e “forte” impatto economico. Ma è davvero così ineluttabile? Parlando con Bernardo Carpiniello, presidente della Sip, scopriamo che ci sono piccole azioni alla portata di tutti, che possono aiutare a prevenirla e a rialzarsi. Prima di tutto bisogna imparare a riconoscere le cause scatenanti di un episodio depressivo. La parola da tenere bene a mente è “perdita”. Insieme a “rete”.
Attualmente la depressione colpisce oltre 3 milioni di italiani e 40 milioni di europei, ma solo un terzo di chi ne avrebbe necessità approda a una diagnosi e alla terapia. Perché?
«Il ritardo nell’inizio delle cure si spiega spesso con la paura dello stigma, ovvero il processo per cui si teme di essere etichettati come una persona che soffre di malattia mentale. Il 50% delle persone affette da depressione di fatto non accede alle cure, non si cura o si cura con ritardo. Dal primo episodio possono passare anni».
Questo ritardo cosa comporta?
«Alcune forme diventano sempre più resistenti ai trattamenti, se non curate in tempo. È una catena di Sant’Antonio. Per questo è importante informare e sensibilizzare, far capire che la depressione non è da confondere con una normale tristezza, ma è uno stato mentale complesso, che ha fattori di rischio ma è curabile».
Che azioni avete intrapreso, anche a livello politico?
«Già da questo autunno speriamo di vedere l’inizio di una campagna di sensibilizzazione pubblica contro la depressione e per la lotta allo stigma, grazie al supporto della commissione Sanità del Senato».
Ci spieghi perché si cade nello stigma.
«C’è un assunto fondamentale, secondo cui chi si sente triste e si rivolge ad altri per aiuto, in fondo lo fa perché è una persona debole, mentre un adulto “se la deve cavare da solo” nella vita. Intorno a questo si costruisce l’evitamento, ovvero la difficoltà ad accettare un supporto esterno. Detto in poche parole, la persona si vergogna. La cosa da notare è che non ci si vergogna di avere il diabete o di dire che si ha la cardiopatia ischemica, ma ci si vergogna di accettare una cura per depressione».
Ci sono persone più a rischio di altre?
«La depressione è così diffusa, che in realtà è difficile dire che colpisce specificatamente un certo tipo di persone. Se andiamo a contare il numero di persone che nel corso della vita possono avere uno o più episodi di depressione, attualmente in Italia siamo tra il 10 e il 12% della popolazione. E nell’80% dei casi dopo il primo episodio ne seguono altri, perché questa è una tipica patologia ricorrente».
Ci sono alcuni fattori di rischio?
«Esiste un rischio genetico, legato alla familiarità, e un fattore di genere, perché la depressione è più comune nelle donne, nel rapporto di due a uno rispetto agli uomini. Si devono poi tenere presenti esperienze negative vissute nella prima e seconda infanzia, fino agli 8-10 anni, come la perdita di uno o entrambi i genitori o l’aver subito abusi fisici, abusi sessuali, malattie gravi o la cosiddetta “neglezione”, ovvero l’essere stati allevati in un ambiente “freddo”, senza il necessario supporto emotivo».
Questi elementi potremmo definirli, impropriamente, “latenti”. Ci sono anche dei fattori “scatenanti’”?
«I primi episodi depressivi cominciano in rapporto ad eventi detti “di perdita”. Una perdita che può essere affettiva, come il divorzio o l’allontanamento o la morte di una persona cara. Ma può avere a che fare anche con l’autostima, come nel caso della perdita di status sociale. Per esempio, l’essere sottoposti ad indagine giudiziaria, con grande esposizione sul piano dell’immagine, specie in una persona che non ha avuto mai a che fare con la legge, è un evento traumatico di perdita. Lo stesso si può dire per la perdita del lavoro. Poi, nelle forme ricorrenti, scatta una sorta di auto-sensibilizzazione».
Ci spieghi meglio.
«Nel senso che si può verificare un ulteriore aumento della predisposizione, per cui a un certo punto gli episodi di depressione sembrano ripetersi anche in assenza di grandi situazioni stressanti. Si innesca un meccanismo che porta al ripetersi sempre più di frequente degli episodi depressivi, fino ad arrivare talvolta alla cronicizzazione del disturbo».
Cosa cambia nella vita di una persona?
«Una persona depressa, nel tempo, ha grande difficoltà a mantenere i suoi ruoli sociali, per esempio a fare il bravo genitore, il bravo coniuge, il buon lavoratore. Attualmente viene stimato che la maggior parte delle giornate di lavoro perse è da addebitare alla depressione».
Insomma si innesca un circolo vizioso di perdita, sia affettiva che economica.
«Sicuramente. Può sembrare strano, ma sono stati fatti anche calcoli economici di quanto la depressione costi indirettamente all’insieme sociale. Qui in Italia, dove c’è ancora un sistema ancora di protezione sociale, le giornate di lavoro perse vengono retribuite, ma il più delle volte non ci sono sostituzioni e quindi c’è una perdita di produttività. Insieme ai costi materiali ce ne sono altri intangibili, che però sono enormi, basti pensare che spesso le famiglie vanno a rotoli. Non deve stupire il fatto che il tasso di separazione sia più alto per le persone che soffrono di depressione».
Veniamo a qualche consiglio pratico. Come si capisce se qualcuno è depresso?
«La diagnosi si basa su fenomeni osservabili, che ognuno di noi può percepire. Si comincia ad accusare un senso di inusuale tristezza, che tende ad essere costante per gran parte della giornata e che o non ha rapporti apparenti con fatti recenti o comunque non è giustificata nella sua intensità e durata da una certa circostanza negativa. Ancora, c’è una perdita progressiva nel provare piacere nelle cose usuali della vita. Per fare un esempio, se sono appassionato di calcio e non mi perdo mai una partita, comincio pian piano a non andare più allo stadio, a non avere più piacere a guardarlo alla tv, insomma perdo interesse. Questo “appiattimento”, che va dai piaceri materiali a quelli intellettuali e spirituali, è un importante indicatore, soprattutto se persiste nei giorni e nelle settimane. C’è anche la tendenza a rimuginare, a pensare negativamente alla propria vita e a vedere soprattutto il proprio futuro come qualcosa di vagamente o chiaramente scuro. Ma spesso si arriva alla diagnosi anche da fattori fisici».
Quali sono questi fattori fisici?
«Per esempio il dimagrimento e l’insonnia, così come uno stato di stanchezza inspiegabile, una perdita di energie che si avverte fin dalla mattina. La depressione è uno stato di sofferenza globale».
E chi dorme troppo?
«È una delle forme atipiche. Vi sono casi in cui le persone vanno a letto prestissimo, dormono tutta la notte e fanno anche fatica a svegliarsi la mattina».
Le personalità più iperattive possono sentirsi al sicuro?
«Questa è una falsa credenza. Ci sono persone che sono effettivamente ottimiste e prese da mille cose, ma non è vero che siano immuni da un pericolo di depressione».
Una volta che suonano i campanelli d’allarme, ci sono dei “trucchi” per fermarla?
«Almeno inizialmente, può capitare che gli episodi depressivi in forma tipica, della durata di qualche giorno o alcuni mesi consecutivi, vadano via da soli. Uno dei più noti fattori protettivi sul lato psicologico è il supporto sociale, ovvero quelle persone che circondano un individuo e gli forniscono un sostegno emotivo e materiale in caso di bisogno. Altre forme protettive sono l’attività fisica regolare, come camminare a passo veloce, o cercare di garantire un sonno regolare. Ancora, non abusare di alcol, che è un potente depressogeno del sistema nervoso centrale, o sostanze psicostimolanti, che al momento magari fanno un bell’effetto ma poi acutizzano i disturbi dell’umore. È chiaro che se il malessere tende a tornare e a farsi più accentuato, non ci si può più affidare al fai da te».
Come si capisce di aver oltrepassato questa linea?
«L’indicatore scatta quando questo stato inizia a creare seri problemi a sostenere la propria vita quotidiana, insomma quando c’è un impatto funzionale oltre che una sofferenza soggettiva. A quel punto si deve prendere in considerazione l’idea di parlarne con un medico, per esempio chiedendo al medico generico di essere indirizzati verso uno specialista».
In cosa consiste la cura contro la depressione?
«Si va dai trattamenti psicoterapeutici a quelli farmacologici. La scelta è da valutare con attenzione, perché ci sono mille variabili da considerare e questo è il compito dello specialista. Ma si deve tener presente che la depressione, nella maggior parte dei casi, si cura».
Quali sono i tassi di successo delle cure specialistiche?
«Tenendo fuori i casi che tendono a cronicizzarsi, i tassi di successo con trattamenti farmacologici, antidepressivi, sono del 70-80% dei casi. Nell’arco di uno o due mesi la persona sta bene».
E in caso di terapia senza farmaci?
«Sempre nelle forme moderate e lievi, la psicoterapia – soprattutto alcune sue forme come quella cognitivo-comportamentale – dà risultati anche se ha un’azione un po’ più lenta, ma parliamo comunque di cicli che durano mediamente 6-8 mesi. Ovvio che nelle forme gravi, con rischio di suicidio, quasi tutte le linee guida internazionali tendono a privilegiare in prima battuta il trattamento farmacologico. Ma si varia molto da caso a caso».
L’epoca che viviamo incide sul rischio di depressione?
«Viviamo una fase di recessione, con elevati tassi di disoccupazione, e i problemi di tipo socio-ecomonico possono predisporre alla depressione. Poi dobbiamo pensare che la nostra è una società molto individualista, dove una parte delle reti naturali di supporto, di cui la famiglia è sempre stata la principale rappresentazione, si è andata affievolendo. Anche per quanto riguarda i rapporti amicali si ha l’impressione che siano molto più di superficie che di profondità, che abbiano più a che fare con la compagnia che non con il legame profondo, ovvero con qualcuno con cui confidarsi».
La rete di associazioni può aiutare? E come?
«L’associazionismo fa parte delle reti di supporto formali, di tipo organizzato. Aumentare la consapevolezza dell’esistenza della depressione e l’importanza che le persone la sappiano riconoscere e curare è l’obiettivo. Se nel ruolo di volontario ci si rende conto che una persona manifesta un’esperienza di sofferenza, tale da far pensare che stia passando periodi di depressione, si può avere un ruolo importante di rassicurazione e di sprone a chiedere aiuto. Chiaramente ci deve essere un minimo di empatia e un rapporto non superficiale con questa persona, altrimenti si farebbe fatica a fare un discorso così personale».