PER I DISABILI LAVORARE È NORMALE. E ALLE AZIENDE CONVIENE
L'esperienza della Chicco Cotto insegna a valorizzare le potenzialità delle persone disabili, che possono dare un contributo importante in azienda.
02 Febbraio 2018
«La Chicco Cotto era una piccola cooperativa e ora abbiamo più di 70 negozi. Funzioniamo perché abbiamo iniziato a subire i colpi della concorrenza. E andrà ancora meglio quando anche il Chicco Cotto scoprirà la dignità del licenziamento».
A parlare è Don Andrea Bonsignori, direttore della Scuola del Cottolengo a Torino, intervenuto a “Nè poveretti né speciali”, il seminario per giornalisti sulle disabilità promosso a Roma dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri insieme a Redattore Sociale e SuperAbile Inail. In quella occasione Don Andrea ha dato la sua risposta ad una domanda: quando la persona che ha una disabilità lavora lo fa per finta? Quella persona viene ancora oggi assunta per dovere dell’imprenditore stabilito con legge dello Stato, per malinteso buonismo oppure quella stessa persona produce invece un ritorno economico, è un punto di forza per l’azienda, perché introduce meccanismi e creatività nuove, porta punti di forza su cui investire e non solo deficit?
LE BUONE PRASSI GIÀ CI SONO. Le buone prassi in questo senso non mancano, come la Chicco Cotto. Impresa sociale nata dalla collaborazione tra la Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, meglio conosciuta come Cottolengo, dal nome del suo fondatore, e la Lavazza, è specializzata nell’installazione e gestione delle macchinette distributrici di snack e bibite.
«Una volta la persona veniva inserita per le sue peculiarità. Oggi noi proviamo a fare questo», ha spiegato Don Andrea. «Il caricatore di vending machine apre le macchinette e le ricarica. Da imprenditore mi chiedo, se non c’è miglior caricatore che non alcuni soggetti con difficoltà dello spettro autistico. Ragionando così partiamo dalle abilità, facciamo una differenziazione di competenza, non di genere. Assumo, così, una persona non perché è una poverina, ma perché è la migliore rispetto ad una mansione specifica».
La Chicco Cotto nasce da un laboratorio didattico nella Scuola Cottolengo di Torino, che accoglie ragazzi con difficoltà diverse, ma anche con capacità da mettere a frutto nel mondo del lavoro. Il laboratorio coinvolge gli studenti della scuola media contro una dispersione scolastica molto diffusa tra i ragazzi con una disabilità o a rischio di esclusione sociale, che spesso non trovano il giusto supporto nel passaggio alla scuola secondaria. Si mettono così insieme didattica e inserimento lavorativo, facendo integrazione.
IL MECCANICOTTO. «Quando la Chicco Cotto ha iniziato a subire la concorrenza», racconta Don Andrea, «è stato bellissimo. Abbiamo gareggiato e abbiamo vinto, abbiamo tolto lavoro ad altre aziende».
A ottobre dello scorso anno, sugli stessi presupposti, viene inaugurato, sempre a Torino, il MeccaniCotto, un’officina nata, questa volta, dalla collaborazione con la Fiat Chrysler Automobiles. «Ci sono ragazzi con disabilità fisiche e psichiche e alcuni operai», racconta Don Andrea, «e l’obiettivo è dare un lavoro a più di mille ragazzi».
Ma il punto, come lo stesso Don Andrea ribadisce, non è la macchinetta o l’automobile. «Il punto è lo stimolo ad investire sulla normalità, a non partire dalle abilità da circo o dalla disabilità. Il punto è che il capo della equilibratura gomme a Mirafiori ora ha un supervisore. E quel supervisore arriva dal Cottolengo. Perché è più bravo. Punto».
IL DISABILITY MANAGER. Un software per i dipendenti con disabilità visiva, una intranet accessibile, una collana editoriale interna contro i comportamenti discriminanti: anche in Banca d’Italia si parla di “valorizzazione della diversità”, di espressione di capacità e sviluppo di potenzialità. E Banca d’Italia è una delle realtà in cui è stata introdotta la figura del gestore delle diversità (il disability manager, per gli amanti degli inglesismi).
Figura ancora poco conosciuta in Italia, il gestore delle diversità ha il compito di accompagnare e facilitare una inclusione in azienda che sia di qualità, dall’ambiente di lavoro alla cura di rapporti di collaborazione tra colleghi disabili e non, alla parità di trattamento, alla valorizzazione della persona come risorsa per l’azienda. «Alcune grandi aziende hanno iniziato a ricorrere al disability manager perché ritengono che un buon inserimento lavorativo sia un valore aggiunto per l’impresa», aveva spiegato qualche tempo fa Consuelo Battistelli, diversity engagement partner per IBM Italia durante un convegno sul tema organizzato a Milano. Anzi, aveva aggiunto, «una delle spinte all’innovazione è proprio la diversità».
DISABILI E LAVORO. Buone prassi dicevamo. Che dimostrano quanto non ci si possa limitare alla normativa o alla copertura delle quote di riserva. Che includere al meglio e valorizzare le potenzialità, facendo delle diversità una spinta, vuol dire saper cogliere le innovazioni e, in ultimo, essere più produttivi, che poi è l’“apriti sesamo” di qualunque impresa.
Ma come arrivare dalle buone prassi a creare una cultura della normalità, un cambiamento per cui ognuno, a suo modo, è portatore di abilità spendibili in un lavoro e non solo personificazione di una disabilità?
Un cambiamento che ha ancora da venire se per l’Istat, al 2013, meno del 20% delle persone con una grave disabilità tra i 15 e i 64 anni ha un lavoro, mentre si arriva al 44% se si considerano anche le persone con limitazioni lievi, invalidità o malattie croniche gravi. Se un normale tirocinio scuola lavoro per i ragazzi con una disabilità resta utopico, come ribadisce anche Don Andrea: «la risposta quando lo proponiamo alle scuole è: “non vi dovremo mica dare l’insegnante di sostegno?”»
LA CARTA ILO. Ormai nel 2015 undici multinazionali – tra cui Gruppo Adecco, AXA Group, Gruppo Carrefour, L’Oréal, Michelin – si sono incontrate a Ginevra, prime firmatarie della Carta su disabili e lavoro redatta dal Global Business and Disability Network, una rete dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro composta da multinazionali, appunto, organizzazioni dei datori di lavoro, reti di imprese e organizzazioni delle persone con disabilità.
Con questo documento i firmatari si sono impegnati in dieci punti a garantire accessibilità dei luoghi di lavoro, pari opportunità, non discriminazione, anche rispetto alla disabilità mentale e a «promuovere l’occupazione di persone con disabilità anche presso i propri partner commerciali, compagnie con le quali si collabora e il proprio network». Le barriere culturali, tuttavia, resistono, e resta la difficoltà, in un’ottica di mercato, di far accettare che uno possa perdere il lavoro perché il suo collega (non la persona disabile) è più bravo», ribadisce don Andrea.
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