VOLEVO DIRE DI QUELLA SCUOLA IN PERIFERIA E DELLA PORTA CHE SI È APERTA

La storia di tre famiglie migranti, dei bambini un po’ incuriositi e un po’ spaventati, delle volontarie che li aiutano ad iscriversi a scuola ad anno iniziato. Di chi riesce e chi no. Una storia che avrebbe potuto essere un documentario. E invece è vita vera

di Arianna Del Vecchio

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Una mattina d’inverno, un gruppo di volontarie si raduna davanti ai cancelli di diverse scuole italiane, pronte a sostenere tre famiglie migranti che hanno lasciato tutto alle spalle con la speranza di un futuro migliore per i propri figli. I bambini, con gli occhi pieni di curiosità e timore, stringono le mani dei genitori, trattenendo il fiato. Le volontarie, consapevoli della sfida che le attende, sanno che iscrivere quei bambini a scuola, a metà anno, sarà un’impresa tra burocrazia soffocante, classi sovraffollate e regolamenti rigidi.

Le istituzioni, spesso sopraffatte dalla cronica carenza di risorse, si rifugiano dietro giustificazioni burocratiche. La mancanza di documenti ufficiali diventa un ostacolo insormontabile, un muro invisibile che lascia i genitori disorientati. Senza mediatori culturali, le famiglie affrontano barriere linguistiche che rendono il sistema scolastico un labirinto incomprensibile. Eppure, dietro queste difficoltà c’è qualcosa di più profondo: la paura dell’ignoto, celata dietro montagne di carte e regolamenti che proteggono lo status quo.

Le volontarie non si arrendono. Passano ore in uffici soffocanti, affrontano discussioni estenuanti con i dirigenti scolastici e spiegano, con pazienza instancabile, ai genitori quali siano i loro diritti e i passi necessari. Ogni momento è una lotta, e la speranza delle famiglie oscilla mentre il tempo passa e le porte delle scuole restano chiuse.

Poi, un piccolo miracolo accade: una scuola di periferia accetta uno dei bambini, regalando un barlume di speranza. L’aula si riempie del suo sguardo curioso, accolto da occhiate incerte e qualche sorriso timido. Ma questo è solo un primo passo, e non tutti riescono a compierlo. Le altre famiglie restano a lottare, davanti a scuole che non aprono, bloccate da pretesti ufficiali che celano una paura profonda di ciò che non si conosce.

documentare i diritti

Documentare i diritti: «Ho avuto paura di fallire nel far valere un diritto che a me è stato garantito»

Queste storie intrecciate raccontano di una battaglia che va oltre i documenti: un confronto con l’integrazione e la dignità umana, una prova di forza di chi cerca di conquistare un diritto fondamentale. La povertà educativa, insieme alle barriere culturali, diventa un simbolo di un sistema che separa chi è dentro da chi resta fuori. Le volontarie, vedendo i risultati parziali delle loro fatiche, si chiedono quanti bambini riusciranno davvero a sedersi in un’aula e quanti rimarranno fuori, in attesa che qualcosa cambi.

Quando ho scelto di raccontare questa storia nel mio progetto per il concorso Documentare i diritti del Rome International Documentary Festival (RIDF), ho voluto rendere visibile la lotta per l’istruzione. Per molti, la scuola è solo un tassello di un puzzle che si costruisce nel corso della vita, ma per queste famiglie, rappresenta un ostacolo enorme da superare per arrivare al futuro che sognano. E in quel momento ho capito che, mentre io esploravo il loro diritto negato, stavo esercitando il mio: il diritto di avere paura. Sì, ho avuto paura. Paura di confrontarmi con un mondo a me sconosciuto, quello del cinema. Paura di dover raccontare questa storia su un palco, davanti a chi ne sapeva più di me, di non riuscire a rendere giustizia alle voci che ho voluto rappresentare. Paura di fallire nel far valere un diritto che a me è stato garantito, ma che a molti altri viene negato. Eppure, ho scelto di superare questa paura. Alla fine, non tutti, ma almeno quelli presenti in quel teatro hanno ascoltato. E per me, questa è già una grande vittoria.

VOLEVO DIRE DI QUELLA SCUOLA IN PERIFERIA E DELLA PORTA CHE SI È APERTA

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