GIOVANI. QUANDO LA CASA FAMIGLIA È ZONA PROTETTA

Tra Orte, Santa Severa, Subiaco, Ancona e Bolzano le storie di tanti ragazzi cresciuti in casa famiglia che ora affrontano la vita fuori. È Zona Protetta, docuserie dal 28 giugno su RaiPlay e dal 7 luglio su RAI3 in terza serata

di Maurizio Ermisino

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«La società si accorge di questi ragazzi nel momento in cui rompono le scatole, fanno sentire in colpa qualcuno, nel momento in cui fanno sentire sbagliato qualcuno». È questo l’incipit di ognuna delle puntate di Zona Protetta, docuserie in 10 episodi, dal 28 giugno in anteprima su RaiPlay e dal 7 luglio su RAI3 in terza serata. I ragazzi di cui parliamo sono quelli considerati “ragazzi difficili”.

zona protetta
Andrea e la regista Giulia Lapenna

Si chiamano Vanessa, Blessing, Mahmoud, Khansaa, Nicoletta, Andrea, Maria Sole, Marta, Sharon, Diana, Pia e Youssef. Sono giovani tra i 18 e i 23 anni con vite difficili che li hanno portati a crescere in case famiglia divenute le loro zone protette. Per chi come loro viene da situazioni complicate, da famiglie talvolta assenti o, ancor peggio violente, avere la possibilità di trovare un luogo dove essere accolti e accuditi significa salvezza. Sono ragazzi che dalla società vengono considerati problematici quando non irrecuperabili. Zona Protetta racconta le loro storie, attraverso la loro voce, grazie all’interazione con registi poco più grandi di loro. Sono Giulia Cacchioni (1994), Chiara Campara (1987), Giulia Lapenna (1996), Giansalvo Pinocchio (1997) e Pietro Porporati (1996). Le case famiglia che Zona Protetta esplora si trovano a Orte, Santa Severa, Subiaco, Ancona e Bolzano. Luoghi dove i giovani protagonisti incontrano educatori, psicologi, assistenti sociali che, per un percorso a volte doloroso, li aiutano a trovare la loro strada. Ne abbiamo parlato con Giulia Lapenna, 28 anni, giovane regista che ha diretto l’episodio 6, Andrea.

Ragazzi costretti a crescere troppo in fretta

Quelli raccontati in Zona Protetta sono ragazzi costretti a crescere troppo in fretta. Anche a fare da genitori ad adulti troppo fragili. Vittime ma, come vuole il sistema, costretti loro ad andarsene dalla famiglia. «Le ragioni per cui arrivano in casa famiglia sono le più varie» ci racconta Giulia Lapenna. «A volte da parte dello stesso ragazzo c’è la denuncia, il mostrare un malessere dovuto spesso alle famiglie di origine. Andrea, a proposito della mamma, dice “mi sentivo io madre per lei”. C’è un momento della vita in cui siamo abituati a mettere in discussione le figure genitoriali: questi ragazzi sono costretti a farlo prima. Nessuno dovrebbe». «A volte si parte da un allarme lanciato dai ragazzi stessi e interviene lo Stato, attraverso i servizi sociali, per allontanare le famiglie d’origine, a volte definitivamente, altre temporaneamente. Altre volte questi ragazzi hanno un differente modo di dimostrare il loro malessere e sfociano in casi di microcriminalità e comportamenti considerati anormali». Negli episodi di Bolzano vediamo un operatore in strada intercettare il malessere espresso attraverso furti e quelle che chiamano baby gang. E poi avviene un tutoraggio all’interno delle famiglie.

Quella sospensione del giudizio

Zona protetta
Nicoletta e Ilaria

La cosa più difficile è aiutarli a reggere il dolore che gli hanno provocato gli adulti. È questo un passaggio chiave di uno dei racconti. In cui viene messo anche in luce il lavoro di chi si occupa dei ragazzi. «Tutti gli operatori, delle case famiglia e non, che abbiamo incontrato ci hanno dato una lezione di vita, una straordinaria capacità di ascolto, di empatia e di sospensione del giudizio, che hanno trasmesso anche a noi registi», spiega Giulia Lapenna. «Molte case erano case famiglia di arrivo, dopo tante altre in cui i ragazzi non erano potuti restare. Quanto può essere difficile, accogliere un ragazzo che fino ad allora non era stato accolto? Se come operatrice decidi che vuoi giocare fino in fondo la partita con quel ragazzo, ed essere casa famiglia in cui può restare fino a 18 anni, è ovvio che ti devi mettere fortemente in discussione. E si è messi in discussione da queste persone che hanno molto da dire. E bisogna essere capaci di ascoltare. È successo anche a noi, abbiamo capito che sarebbe stato uno scambio dove avremmo appreso moltissimo».

Zona protetta: il rifugio in uno sguardo

Zona portetta
Il compleanno di Blessing

La forza di un racconto come quello di Zona Protetta è il modo in cui i registi sono entrati in empatia con i ragazzi, che è evidente da come questi si sono aperti a loro. «Gli autori ci hanno raccontato un po’ di questi ragazzi: poi noi registi abbiamo iniziato a pensare alle storie e le persone che ci sarebbe piaciuto raccontare e autori hanno iniziato a proporci delle coppie tra registi e ragazzi» ci spiega Giulia Lapenna. «Poi siamo andati a conoscerli per parlare con loro e creare un legame. Andrea, dopo che le facevo delle domande, ha voluto anche lei chiedermi delle cose. Questo ha portato a una reciprocità, un restare fianco a fianco, al non mettersi sopra all’altra persona: la base fondamentale su cui basare la fiducia». «I ragazzi avevano una grande voglia di raccontare, con piacere, con gioia: abbiamo dato loro un’occasione e loro l’hanno immediatamente data a noi» continua. «Il rapporto importante costruito nei mesi ha fatto sì che quando siamo arrivati sul set delle interviste non erano spaventati né hanno avuto un freno: se non ci fosse stato quel lavoro prima non sarebbe stato possibile. Con Andrea, tutta la naturale ansia, l’innaturalezza che aveva il nostro parlare sul set si è chiusa dentro il nostro sguardo: ci siamo rifugiate nello sguardo tra di noi, uguale a quello di sempre».

Il sottointeso nella comunicazione dei ragazzi

Zona Protetta funziona con quello sfondo bianco che unisce i vari ragazzi nelle interviste portanti degli episodi, quelle posate. È uno sfondo bianco che li rende tutti uguali e li astrae dalla propria storia, li allontana da essa per raccontala meglio. E ci piace il fatto che non l’inquadratura spesso non venga staccata alla fine di una risposta, ma venga lasciata quell’attimo di più in modo che un’espressione, un movimento del volto possa dire ancora molto della loro storia. «È una scelta di montaggio, quella di catturare dei momenti di silenzio che parlavano più dei momenti precedenti di racconto esplicito» ci spiega la regista. «C’è un sottointeso nella comunicazione dei ragazzi. Credo sia troppo facile raccontare solo didascalicamente un tragico passato e o un trauma: abbiamo cercato di preservare la delicatezza, l’attenzione con cui ci portavano nel loro passato».

 Andrea, una profonda connessione

Zona protetta
Maria Sole torna in comunità

Ma come ha scelto Andrea? «La scelta non è stata solo mia, ma anche una considerazione fatta da produttori e autori» ci spiega la regista. «È stata una sensazione di pancia. La storia di Andrea mi ha emozionata e, anche per la bravura degli autori a farci immaginare questi ragazzi, mi ha coinvolta visceralmente». «Sentivo che con Andrea sarebbe stato determinante il tocco del regista con cui interagire» continua. «Sapevo che avrebbe scelto lei cosa raccontare e con chi.  È qualcosa che ha a che fare con profonde connessioni, non tanto perché un giorno sia successo qualcosa, ma per la storia che ha da raccontare». Guardando Andrea nell’episodio a lei dedicato, sembra che ogni emozione in lei scorra più forte del normale: la felicità, la tristezza, i turbamenti.

Una grande energia vitale

Ma che cos’hanno in comune tutti questi ragazzi, oltre al loro passato difficile? «L’energia vitale» ci risponde la regista. «Rispetto alla media della nostra generazione, c’è un’energia che questi ragazzi, dopo aver toccato il fondo, hanno dovuto attivare. Per una spinta che non è solo sopravvivenza, ma dire “non ci basta sopravvivere, qualcosa la vogliamo avere da questa vita”. Quell’energia così forte e coraggiosa li accomunava, la trovavi nei loro occhi».

GIOVANI. QUANDO LA CASA FAMIGLIA È ZONA PROTETTA

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