DONNE E DISABILITÀ: È TEMPO DI UN’ALLEANZA CONTRO LA DOPPIA DISCRIMINAZIONE
È la richiesta di Fish e Agenzia per la Vita Indipendente a tutte le parlamentari, a partire dal diritto alla salute e alle cure. Ne parliamo con Silvia Cutrera
di Paola Fabi
25 Giugno 2019
Un’alleanza tra donne per fermare la doppia discriminazione che subiscono le disabili.
È questa la richiesta di Silvia Cutrera, presidente della Fish (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e dell’Agenzia per la Vita Indipendente, al movimento femminista e a tutte le parlamentari di tutti partiti.Perché se essere donna è difficile, essere donna con disabilità lo è ancora di più. Molto di più.
«Le donne disabili non sono raccontate in questa società della comunicazione e quindi possono essere ignorate, non curate, non assistite, abusate e abbandonate, Il modello che viene proposto è quello di atlete paralimpiche, donne senza gambe che ballano benissimo, non vedenti che fanno cose eccezionali, tutte bravissime ma che non rispecchiano la realtà di donne ordinarie e tantomeno di quelle con problemi fisici o cognitivi».
Un tema affrontato recentemente anche in un convegno alla Camera, organizzato dalla deputata Lisa Noja a cui ha partecipato anche l’ex ministra Maria Elena Boschi, Pd, e che presto porterà alla formulazione di una mozione per impegnare il Governo a lavorare perché queste tematiche rientrino in tutte le politiche che riguardano le pari opportunità e le promozione dell’uguaglianza di genere. Tematiche già presenti nella Convenzione Onu, redatta nel 2006 e legge dello Stato nel 2009, ma che ancora non trovano spazio nella legislazione e quindi nella società italiana, a cominciare dal diritto alla salute e all’assistenza delle donne con disabilità.
Malgrado la Convenzione Onu c’è una grossa fetta della popolazione femminile che non ha accesso alle cure sanitarie per problemi legati alla disabilità
«Il tema delle donne disabili è trattato negli articoli 3, 8, 16 e 28 nei quali si fa riferimento alla salute, ai diritti legati alla sfera riproduttiva e alla prevenzione. E proprio questo ultimo aspetto è particolarmente importante: la prevenzione dei tumori femminili. E la mancanza di infrastrutture adeguate: lettini non comodi, apparecchiature per la mammografia non adatte a persone che non possono stare in piedi, eccetera».
La doppia discriminazione
«Esatto. Di genere in quanto donna e per la condizione fisica, che non permette l’accesso a un certo tipo di cure».
Quali sono le proposte per superare queste difficoltà?
«Serve l’intervento legislativo, ma anche una sensibilizzazione di tutte le donne del Parlamento. L’impegno, per ora, lo hanno preso le parlamentari del Pd per una mozione che impegni il Governo su queste tematiche, ma serve la collaborazione di tutte le donne presenti nelle Istituzioni per avere più incisività e arrivare a politiche attive che possano risolvere i problemi. La nostra richiesta è questa: luoghi di cura accessibili almeno in termini di barriere architettoniche. Ma anche di barriere culturali: le ragazze con disabilità, anche con gravi disabilità cognitive, hanno diritto alla salute e alle cure. La Convenzione, negli articoli 16 e 28, prevede forme adeguate di assistenza alle persone con disabilità e ribadisce l’attenzione proprio sul genere».
Perché?
«Perché la differenza di sesso nella disabilità condiziona anche la prospettiva di accesso alla formazione e di conseguenza anche al lavoro. Le bambine e le ragazze con difficoltà, dopo l’obbligo scolastico, tendenzialmente non vengono avviate a cicli di istruzione che potrebbero anche garantire delle posizioni lavorative più elevate e una vita indipendente al di fuori della famiglia».
È questo il cuore del problema?
«Infatti. Se non si inizia a pensare che anche una ragazza con disabilità in prospettiva ha diritto a una vita adulta: una casa con un compagno, con delle amiche o con una persona che si occupi delle sue esigenze. Una prospettiva analoga a quelle delle coetanee, mentre in realtà si tende a tenerle in casa, a non accrescere la consapevolezza che queste ragazze-donne potrebbero dare alla società, mettendole anche in grado di difendersi da abusi e violenze. La protezione delle famiglie spesso non aiuta ragazze a capire i segnali che arrivano da uomini abusatori e violenti. E i dati Istat (riferiti al 2014) sono la prova: i tentativi di stupro sono al 10 per cento sulle donne con disabilità contro il 4 di quelle senza limitazioni; la violenza psicologica al 31 per cento contro il 25 delle normodotate; lo stalking al 21 per cento per le disabili contro il 14 del resto della popolazione femminile».
Come aiutare le famiglie a capire e accettare un percorso che porti all’indipendenza di queste figlie?
«È anche un problema culturale che riguarda sia il genere femminile che la condizione di disabilità, siamo considerate come soggetti “asessuati”. Le famiglie hanno dei meccanismi di protezione che non permettono a queste bambine, poi ragazze e donne, di costruirsi una loro identità femminile e sessuale. Una negazione di un’appartenenza sessuale che le espone a grossi rischi quando vanno in luoghi di aggregazione. Già ci sono tante difficoltà a denunciare, tanto più per donne o minori con disabilità. A volte, poi, la donna subisce abusi anche dalla persona che se ne prende cura e in situazioni come questa il meccanismo di ricattabilità scatta subito: la persona ha paura di perdere l’assistenza, di essere abbandonata o di perdere il diritto a rimanere nell’istituto».
Una donna con disabilità, quindi, non è una come le altre, con gli stessi desideri ed esigenze?
«È così e per questo si può non darle assistenza e si può anche non pensare a una progettualità per renderla indipendente».
E la soluzione?
«La Fish ormai da anni sta cercando di far capire a chi governa che il tema della disabilità è prioritario non solo per chi nasce con problemi o che in seguito ne sviluppa, ma perché con una popolazione che invecchia saranno moltissime le persone anziane non autosufficienti. Per questo è così importante avere i livelli essenziali delle prestazioni, da tutti i punti di vista dell’assistenza, che è lo strumento per una vita autonoma e indipendente. Nello stesso tempo anche la società deve cambiare e adeguare l’offerta dei servizi in termini di accessibilità e fruibilità».
E le risposte a queste richieste da parte del legislatore quali sono state?
«Sono sempre le stesse: non ci sono risorse, la legge di bilancio, eccetera. Non si investe su questa parte di popolazione. Inoltre, la Convenzione Onu pretende che i governi che hanno ratificato la convezione si dotino di un Osservatorio per affrontare le aree più importanti, un piano biennale per i diritti e l’integrazione e per le donne. Il nuovo Governo ha insediato l’Osservatorio ma non ha iniziato a operare».
Non è un po’ riduttivo relegare queste tematiche solo al recinto della disabilità? Non riguardano tutte le donne?
«Solo negli ultimi anni siamo riuscite a coinvolgere il movimento femminile e alcune nostre rappresentanti hanno partecipato al rapporto ombra per quanto riguarda l’applicazione della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, con un capitolo a parte sulle disabili. Con Differenza donna, che è un’associazione che si occupa di questo e ha uno sportello attivo, abbiamo attivato il questionario VERA (“Violence, Emergence, Recognition and Awareness”) per portare alla luce la vera dimensione del fenomeno della violenza sulle donne. C’è bisogno dell’aiuto di tutti e in particolare di tutte le donne».
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