DOPO DI NOI: A VITERBO LA RISPOSTA È LA RETE
Mentre il dopo di noi resta un tema aperto, 13 associazioni del viterbese lavorano alla nascita di una Fondazione di partecipazione. Perché l’unione fa la forza
25 Luglio 2014
“Non è sufficiente garantire alla persona disabile un posto dove mangiare e riposare; deve di contro essere garantito un progetto di vita personalizzato che comprenda tutte le grandi aree dell’apprendimento/espressività, della formazione/lavoro, della casa/habitat sociale e dell’affettività/socialità”. È stato presentato con queste parole, durante un convegno organizzato ad Aprile scorso a Viterbo, il progetto per la nascita di una Fondazione per il durante ed il dopo di noi proprio a Viterbo, dove chi con questo problema deve fare i conti ha la sola soluzione del turismo sanitario. Ci racconta il progetto Maurizio Casciani, Presidente di Sorrisi che nuotano Eta Beta, una delle Associazioni che siedono nel Comitato promotore della Fondazione Oltre Noi.
Perché l’idea di questo progetto?
«A Viterbo c’è un grande problema rispetto al dopo di noi. Una delle preoccupazioni più grandi che tutte le famiglie che assistono ragazzi in difficoltà hanno – e anche una delle più angosciose – riguarda il futuro di quei ragazzi quando quella assistenza familiare, per motivi diversi, verrà a mancare. Purtroppo, quando nella famiglia non è più possibile gestire una persona disabile, ci si trova a dover affrontare il problema all’improvviso e a Viterbo quasi sempre l’unica soluzione è emigrare, non essendoci strutture idonee nella provincia, a parte una sola struttura accreditata, satura da anni. Per il mio ragazzo, che ha una disabilità abbastanza grave e due anni fa ha avuto manifestazioni molto forti di aggressività per cui non si riusciva più a gestirlo in famiglia, siamo stati costretti a cercare una soluzione per un percorso riabilitativo prima a Pisa e poi ad Arezzo, dove sono ricoverati almeno altri venti ragazzi della provincia di Viterbo. Così a Gennaio abbiamo avviato degli incontri con quattro o cinque associazioni che, sul territorio, operano più da vicino sul problema della disabilità mentale, fisica e sensoriale. Il punto è che per dare un dopo di noi a questi ragazzi servono strutture importanti, organizzate, ma anche dai costi elevati, che richiedono rapporti di alto livello con il Comune che con la Asl. E tutto questo una sola associazione ha difficoltà a farlo. Così abbiamo pensato di unire le nostre risorse in un’organizzazione superiore. Ci siamo documentati su altre esperienze, abbiamo preso contatti con altre fondazioni e ci siamo resi conto che la fondazione di partecipazione è probabilmente la più idonea. Sia perché, una volta riconosciuta, ha una personalità giuridica e poi perché consente di mettere insieme le risorse di tante associazioni, ma anche amministrazioni comunali, Asl, istituti bancari, forze del territorio altrimenti scollegate».
Quante associazioni sono coinvolte?
«L’ottima adesione delle istituzioni pubbliche e private alla presentazione del progetto durante il convegno organizzato ad Aprile ci ha incoraggiato a proseguire. Abbiamo costituito un comitato promotore che lavori alla costituzione della fondazione. E già questo è stato un primo successo, visto che siamo riusciti a far confluire al suo interno ben 13 associazioni di volontariato di Viterbo e provincia. Un buon risultato, perché si parla spesso di rete, ma poi altrettanto spesso si riesce a creare piccole situazioni di aggregazione, ed è comunque sempre difficile. Siamo riusciti a mettere insieme associazioni che si occupano di disabilità di tutti i tipi, fisica, sensoriale, mentale e psichica e abbiamo avviato una interlocuzione con Comune e Asl di Viterbo: nel nostro immaginario c’è un tavolo che abbia ai tre vertici le amministrazioni comunali per l’aspetto assistenziale, la Asl per l’aspetto sanitario e la fondazione, che sia di stimolo ad entrambi. Il comitato è stato costituito con le associazioni, ma nella fondazione vediamo i Comuni e la Asl perché è con loro che ci dovremo confrontare. Se poi riusciremo a mantenere tutte queste associazioni, credo che riusciremo ad avere una struttura importante e partecipata. Tutto il nostro lavoro si basa sul concetto che chi vive in modo più profondo il problema sono le famiglie, che conoscono bene le aspettative dei ragazzi, tanto che pensiamo ad un consiglio di amministrazione in cui la maggioranza sarà sempre detenuta dalle associazioni e quindi dalle famiglie, alle quali deve essere demandata la policy della fondazione. Poi ci sarà un comitato tecnico-scientifico e rappresentanti del Comune, ma il core devono essere le associazioni e quindi le famiglie. In questa prima fase il Comitato deve lavorare per costruire uno statuto in cui trovino collocazione tutte le realtà nei vari rapporti di collaborazione, realizzare una prima attività di fundraising per assicurare alla fondazione un patrimonio iniziale e poi soprattutto definire il piano strategico triennale basato sull’analisi dei bisogni del territorio. Certo, parliamo di progetti che non si realizzano nel breve termine, stiamo investendo perché qualcosa si muova anche sulla spinta di questa nostra iniziativa. La cosa positiva è che tutte le volte che ci siamo rapportati con l’ente locale o la Asl abbiamo registrato il loro bisogno di avere un unico interlocutore di confronto che possa dare un quadro complessivo dei bisogni del territorio. E, se sul dopo di noi ci fosse per loro la possibilità di rapportarsi ad un interlocutore unico, che, di fatto, rappresenta tante associazioni, forse sarebbe più semplice trovare una risposta a problemi tanto complessi».
Avete avuto primi riscontri positivi? Quale sarà la funzione della fondazione?
«Devo dire che, anche se la fondazione non esiste ancora, qualche piccolo segnale positivo c’è già stato. La Asl sta costituendo dei tavoli permanenti, di cui uno sulla disabilità che tratterà il tema del dopo di noi; l’Assessorato ai Servizi sociali sta costituendo un tavolo permanente per il dopo di noi e sta lavorando all’eventuale inserimento di progetti nel Piano di zona. Se non altro si sta parlando del problema, che finora nella provincia di Viterbo era stato affrontato poco. Esperienze ce ne sono – a Caprarola, Ronciglione ad esempio – ma sono piccole, non in grado di dare una risposta definitiva ad un problema che è grande. Proprio in questi giorni abbiamo avviato uno studio con la Asl per avere un’analisi approfondita dei bisogni del territorio e, dai primi risultati, emerge che il numero di famiglie che nei prossimi 10 o 15 anni si potrebbero confrontare con il problema del dopo di noi è esponenzialmente maggiore delle attuali capacità di risposta della provincia, siamo nell’ordine di 1 a 10. È un problema da risolvere, il turismo sanitario non può essere l’unica soluzione. La fondazione in questo senso avrà una fondamentale funzione di stimolo e, in generale, potrebbe affrontare, ricorrendo al fundraising, problematiche che né il Comune né la Asl potrebbero risolvere. La sua vera sussidiarietà sarebbe questa. Ci proponiamo di fare quelle cose che la pubblica amministrazione non può fare. Poi se la fondazione avrà un impegno di tipo economico o gestirà case famiglia è un problema relativo, se in futuro ne avremo la forza non è detto che non potrà accadere».