AMIR ISSAA, IL MUSICISTA CHE USA IL RAP PER EDUCARE
Educazione Rap è il titolo del suo ultimo libro. Attraverso il rap le persone si raccontano. Di qui comincia il riscatto
03 Giugno 2021
Ciò che colpisce di Amir Issaa (questo il suo blog)classe 1978, nato e cresciuto nel quartiere romano di Tor Pignattara, è il suo eclettismo. Attratto dalla cultura hip hop degli anni Novanta, dopo un passato da breaker e uno da writer capisce che il rap è la sua strada. Nel 2012 riceve la nomination ai David di Donatello e al Nastro d’argento per la colonna sonora del film “Scialla (Stai sereno)”. Ma la sua vita non è fatta solo di musica. Collabora con importanti associazione attive nella capitale come Save the Children, Centro Astalli, Esercito della Salvezza e Comunità di Sant’Egidio. I suoi laboratori di scrittura per le scuole vogliono essere un trampolino di lancio per ragazze e ragazzi, che vogliono esprimere le proprie emozioni e capire qual è il proprio posto nel mondo. Messaggio contenuto nel suo ultimo libro, “Educazione rap”, edito da ADD Editore.
Amir, in che modo si può fare educazione rap? Un genere musicale “ribelle” come il rap può diventare uno strumento didattico?
«Perché tratta temi sociali, come l’attenzione per le persone in difficoltà, attraverso un mezzo espressivo abbastanza semplice costituito da rime e figure retoriche. Il rap main stream c’entra ben poco con quello statunitense. Quando è stato importato in Italia è stata data più attenzione alla lingua, che ai valori. Alcuni artisti sono figli di papà che pensano ai vestiti di marca e alle macchine potenti, cantando di droghe e sparatorie. Negli USA invece si racconta la vita vera».
In diverse interviste ha raccontato episodi di discriminazione razziale per via del colore della pelle, il nome e le condizioni sociali ed economiche. Come ha reagito?
«Ho trovato nel rap lo strumento per sfogare rabbia e frustrazione derivanti da una situazione familiare non facile. Come racconto nel mio primo libro, “Vivo per questo”, mio padre è stato in carcere e mia madre è stata costretta a fare il doppio lavoro. Mi sentivo giudicato dappertutto, tranne quando ero in compagnia dei rapper della scena romana. Oggi non competo più, ho un figlio ventenne, insegno nelle scuole e voglio portare la mia storia agli altri, affinché sia fonte di speranza».
Come si sviluppa il programma del suo corso?
«Parto dalle filastrocche, facendo notare che messe su un beat assomigliano incredibilmente a un pezzo rap. Mi concentro soprattutto sulla parola, meno sulla musica, troppo spesso legata a distrazioni come l’abbigliamento e i videoclip. Vi stupireste sentire cosa possono creare bambini piccoli e anziani: tutti hanno voglia di raccontarsi».
Eppure in molte canzoni i suoi colleghi utilizzano espressioni razziste, omofobe e sessiste.
«Il rap italiano nasce nei centri sociali ed è subito stato identificato come un qualcosa di progressista. Non sono d’accordo. Al pari di mezzi espressivi come il cinema e il teatro, il rap non è partitico: un rapper di destra farà testi di destra, uno di sinistra farà testi di sinistra».
Parliamo di un genere non proprio politicamente corretto.
«Questa è una generalizzazione dovuta alla cattiva informazione, sempre alla ricerca della battuta transfobica che fa più notizia. Non tutti siamo così. Il linguaggio descrive chi lo parla. Io sono per la libertà di espressione e invito i colleghi ad assumersi le responsabilità di quanto cantano. Il sottobosco è meglio dei talenti imbottiti di marketing. Senza contare che nella nuova generazione si sta diffondendo una maggiore sensibilità per i valori della cultura LGBTQ».
Altra critica rivolta al rap è la capacità di generare uno spirito di emulazione verso modelli negativi.
«A chi avanza questa obiezione mi sento di rivolgere una domanda: perché gli adolescenti non scelgono come modelli il proprio padre o la propria madre? E lo dico da genitore separato, che ha cresciuto da solo il proprio figlio. Bisogna essere presenti nella vita dei più piccoli e capire quali cose stanno modellando il loro immaginario. Molto più difficile, rispetto ad aprirgli un canale Youtube e lasciarlo navigare su Internet senza lo spirito critico necessario a discernere la qualità dei contenuti. È come se si incolpasse il videogioco Grand Theft Auto se un minorenne uccide un essere umano».