ELLIE, LA MODELLA CON SINDROME DI DOWN: PERCHÉ LE POLEMICHE?
A 18 anni è diventata testimonial di Gucci. L’operazione è stata accolta con grande entusiasmo dalla maggioranza, eppure non sono mancate le critiche
18 Agosto 2020
Ellie Goldstein, inglese, 18 anni, ha sempre sognato di fare la modella. Il sogno è diventato realtà da qualche anno, con alcune campagne per Nike e Vodafone. E ora Ellie è diventata testimonial di uno dei brand più importanti della moda, Gucci.
Ellie Goldstein è una ragazza con sindrome di Down, è stata scelta come volto di una campagna beauty, dedicata al lancio di un mascara, ed è apparsa anche sulle pagine di Vogue Italia. L’operazione è stata accolta con grande entusiasmo dalla maggioranza, eppure non sono mancate le critiche, anche se sono da derubricare probabilmente al solito rumore di fondo da social network. Abbiamo parlato con Anna Contardi, coordinatrice nazionale dell’AIPD, Associazione Nazionale Persone Down, e con Marco Binotto, sociologo dei processi culturali e comunicativi, docente dell’Università La Sapienza di Roma, per provare a capire la natura di questa campagna, e il perché delle critiche.
Un’operazione positiva, perché non cade negli stereotipi
«Ho visto la campagna di Gucci prima che se ne parlasse e avevo già scritto a Gucci per fare i complimenti e chiedere perché avevano fatto questa scelta», ci ha spiegato Anna Contardi. «Avevano lanciato una gara fra vari fotografi, e uno di questi aveva risposto con questa idea. Gucci è stato subito d’accordo, anche perché avevano fatto esperienze inserimento lavorativo di persone down nella loro azienda».
«La mia percezione della campagna è positiva» continua. «Come lo è stata per qualsiasi iniziativa che sia rispettosa delle persone con sindrome di down e non crei nuovi stereotipi è importante». Tutto quello che aiuta a recuperare l’incontro con le persone con sindrome di Down nelle varie dimensioni dalla vita è positivo. La cosa importante è non creare nuovi stereotipi. «Non è che perché la ragazza ha fatto la modella tutte le persone Down possono fare le modelle», commenta Anna Contardi. «Non è perché c’è una persona che si è sposata tutti si sposeranno. La chiave è trovare l’unicità di ogni storia». La cosa importante che ci racconta questa storia è che tutti possono trovare la propria strada. «E che tutti sono cittadini del mondo», aggiunge la coordinatrice di AIPD. «Per me è interessante che ci sia l’articolo sulla modella e quello sul cameriere che serve al ristorante. O sulla ragazza della Sicilia che ci ha mandato un video in cui recita una poesia di Leopardi, che è diventato virale. Veronica non è un’attrice o una modella, ma una studentessa delle superiori a cui è piaciuta questa poesia e ce la racconta. E la gente capisce come una persona con sindrome di Down possa trasmettere emozioni e sentimenti».
«Il primo pensiero non può essere che positivo», concorda Marco Binotto. «Qualsiasi gesto di inclusione di persone con disabilità o qualche diversità che, fino a poco tempo prima, la rendevano inadatta al canone in voga, e che questo canone in qualche modo venga modificato in modo da poter includere una minoranza è positivo».
Una campagna perbenista?
Sui social media sono apparsi però anche una serie di commenti sgradevoli all’operazione. C’è chi scrive che «questa wave di perbenismo ha rotto…» e chi che «una modella dovrebbe essere presa per la sua bellezza e non per dell’inutile perbenismo», oltre a commenti maschilisti, che non vogliamo riportare. Ma perché accade tutto questo? «Se uno è buono è buono, e il buonismo e una cosa diversa» commenta Anna Contardi. «Il gesto in sé è un gesto buono e non è strumentale: è una campagna che è uscita in modo molto soft. Tutto il risalto è avvenuto dopo. Noi siamo abituati a media e tv, che raccontano con enfasi le cose cattive; quando si raccontano le cose buon, sembra che ci sia sotto qualcosa. Credo che dovremmo raccontare le cose buone perché stimolano la gente a essere buona. Io ho cominciato a seguire inserimenti lavorativi di persone Down nel 1992 a Roma, e la prima azienda è stata una licenziataria di McDonald’s, che non voleva che si dicesse, avevano paura di queste critiche».
«Dovremmo essere più laici, pensare che uno non deve essere esibizionista del bene, ma pensare che le buone prassi ispirino altre buone prassi», aggiunge la coordinatrice. «Secondo me la cosa più importante è andare a vedere se l’azienda ha fatto la cosa in modo professionalmente competente. Mi interessa che nella relazione con le persone con sindrome di Down le persone siano brave, non solo buone».
I social e una società che non accetta i cambiamenti
Ma il fatto che un’operazione come questa presti il fianco a critiche sembra inevitabile nel mondo di oggi, governato dai social media. «C’è un ambiente, un ecosistema che facilita tutto questo: anche nelle controreazioni fanno parte di un circuito che tende ad amplificare un dibattito» ragiona Binotto.
«Ovviamente ci sono vari modi: dal dibattito improduttivo, che diventa semplicemente uno sfogarsi per qualcosa, a un dibattito che ha dei margini di educazione collettiva, spostamento del discorso, conoscenza reciproca. Cose che una volta si dicevano al bar vengono dette pubblicamente, ci si può confrontare e si scoprono pezzi della società». E così, in questi casi, ad emergere è un pezzo della società «che non riesce ad accettare i cambiamenti. Pensiamo al richiamo al politicamente corretto, che è diventato un feticcio per difendersi da qualsiasi critica, che cerchi di allargare i canoni, il discorso, di includere voci che fino a qualche tempo fa non erano incluse. La frase è un ossimoro: “la dittatura del politicamente corretto”. Ma dov’è questa dittatura? Ci sono minoranze, che fino a ieri erano escluse dal discorso pubblic, che non vogliono più esserlo e oggi riescono a ottenere voce. La reazione automatica è di difesa, in questo caso di non voler neanche provare a ipotizzare che possa essere messo in discussione il canone di bellezza. Così si dice che chi vuole cambiarlo lo fa solo per farsi vedere o fare vedere la minoranza».
Ma Gucci non l’ha scritto
La giornalista Fabiana Giacomotti, su “Il Foglio”, scrive di essere andata a controllare su Instagram se davvero Gucci avesse scritto di aver scelto una modella con sindrome di Down per la propria campagna beauty. E invece no, non l’ha scritto. Ha semplicemente presentato al mondo la sua nuova modella. Allora l’idea di classificare sempre, per forza, è in noi che guardiamo, nei media che, per forza, incasellano in categorie? «Un po’ sì», risponde Anna Contardi. «È sempre questo tentativo di generalizzare, quello che dicevamo prima. “Giovanna fa la modella, ed è una modella con sindrome di Down”. Se io dico invece “modella Down” vuol dire che la sua identità è schiacciata sulla sindrome di Down. Io voglio porre l’attenzione sulla persona, su quello che fa. E poi dico che ha anche la sindrome di Down. La differenza è questa».
Quanto conta il contesto?
E se dipendesse dal contesto? Negli ultimi anni abbiamo assistito ad alcune operazioni in cui delle persone con sindrome di Down erano apparse in video: il reality Hotel 6 Stelle, andato in onda su Rai 3, o il film “Dafne” di Federico Bondi (ne abbiamo parlato qui). Operazioni che non avevano dato adito ad alcuna polemica. Dipende dal fatto che ora si è nel mondo della moda? «Il contesto è determinante» commenta Marco Binotto. «Hotel 6 Stelle andava in onda su Rai 3, in un contesto già consueto a questo tipo di comunicazione, con uno stile molto misurato, molto attento. Rendeva tutto più facile. La moda è un contesto dove c’è l’obbligo della bellezza, dove i canoni di bellezza sono molto forti, e il criterio di giudizio è solo su quello, ed era fatale che stridesse di più. Ma la cosa è comunque positiva».
Un valore aggiunto
Ma Anna Contardi ci fornisce un altro spunto di riflessione. «Una ricerca McKinsey in Brasile ha dimostrato che la presenza di persone con sindrome di Down nelle aziende migliora la qualità dell’azienda: suggerisce un’immagine migliore ai clienti, stimola l’ambiente lavorativo», rivela la coordinatrice nazionale di AIPD. «Questa ricerca ribalta totalmente l’immagine che uno ha nella testa. Facciamo da 3-4 anni un progetto internazionale a livello europeo, in cui attribuiamo un marchio alle aziende dell’accoglienza, come alberghi e ristoranti, che promuovono l’inserimento lavorativo delle persone con sindrome di Down. Il primo maggio dello scorso anno abbiamo realizzato un filmato intervistando diversi datori lavoro, per chiedere cosa cambiava con un lavoratore con sindrome di Down: per molti è un valore aggiunto. Non è l’azienda che è buona perché ha assunto una persona con sindrome di Down. Ma è lui il buono perché porta qualcosa all’azienda».
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