EUROPA, ECONOMIA SOCIALE: A CHE PUNTO SIAMO?

L'economia sociale contribuisce al PIL europeo per 950 miliardi, ma in Europa soffre ancora di uno sviluppo a macchia di leopardo. Juan Antonio Pedreno: «In alcuni Paesi è stato più facile, in altri il processo è stato più lungo e complesso, ma in generale sono più avanti dell’Italia»

di Giorgio Marota

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Già nel 2014 Papa Francesco parlava di «nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi ma al beneficio della gente e della società», manifestando la necessità non più rinviabile di un «passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale». In questi dieci anni gli Stati e le grandi istituzioni hanno continuato a interrogarsi sul senso profondo di questa rivoluzione gentile, senza però abbandonare cliché e pregiudizi. Uno è in evidenza anche sul sito del ministero del Lavoro: l’economia sociale è definita come l’insieme di «attività senza scopo di lucro e di utilità sociale realizzate dalle organizzazioni di terzo settore». Nel pensiero comune resiste, insomma, una sorta di demonizzazione del profitto senza considerare, viceversa, che anche chi fa del bene per gli altri può produrre reddito. Con una differenza rispetto agli schemi tradizionali: qui la libertà di mercato è armonizzata con la giustizia sociale e segue un modello di sviluppo ovviamente differente da quello che oggi, ad esempio, permette al 10% della popolazione mondiale di possedere l’85% della ricchezza disponibile, lasciando il restante 15% agli altri 9 abitanti su 10 del pianeta.

Creare un’economia al servizio delle persone

Bergoglio chiedeva di «passare da un’economia che punta solo al reddito e al profitto in base alla speculazione e al prestito a interesse» a un’altra – sociale, appunto – «che investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione». Di questi temi si è parlato a lungo giovedì mattina all’Università La Sapienza di Roma, durante il convegno Il fattore economia sociale, in cui si sono confrontati esperti, imprenditori e accademici. Per introdurre il dibattito si è partiti dall’assunto che, nonostante in Europa non ci sia nessun commissario con delega specifica, la stessa Commissione Ue nel 2021 abbia inviato una comunicazione al parlamento europeo, al consiglio, al comitato economico e sociale e al comitato delle regioni per “Creare un’economia al servizio delle persone”. Di fatto, è partito un piano d’azione per l’economia sociale. Il documento evidenzia come ogni giorno circa 2,8 milioni di soggetti dell’economia sociale offrano in tutto il continente «soluzioni concrete e innovative alle sfide chiave», creando e mantenendo «posti di lavoro di qualità», contribuendo «all’inclusione» e offrendo «nel mercato del lavoro dei gruppi svantaggiati pari opportunità a tutti». Durante la pandemia ci si è resi conto della centralità di questi progetti: c’è chi ha prodotto ad esempio mascherine protettive, chi ha sostenuto l’istruzione digitale online, chi ha fornito un aiuto di prossimità nelle comunità, chi non ha abbandonato disabili, migranti e anziani e anche chi ha investito nella transizione verde. Per la commissione Ue, i modelli imprenditoriali partecipativi messi in campo «contribuiscono a garantire l’equità», oltre che incrementare il tasso di occupazione e la riduzione del numero di persone a rischio povertà, dando lavoro a 13,6 milioni di cittadini.

economia sociale
Siamo tra i primi in Europa per organizzazioni, per peso economico e per numero di occupati, eppure il modello fatica a decollare nel nostro Paese

Economia sociale: perchè in Italia il modello fa fatica a decollare

Il consumo e la produzione responsabili, insieme alla finanza sostenibile, sono gli obiettivi che l’economia sociale persegue. Ci sono Paesi in cui è più sviluppata: in Francia rappresenta il 10% del Pil. In altri stati le possibilità non vengono colte come dovrebbero. Ne è un esempio l’Italia, dove il governo Meloni ha istituto un tavolo per realizzare un piano d’azione sull’economia sociale sulla base dell’indirizzo europeo; dopo diversi mesi, però, i lavori sono ancora in alto mare a causa dello scarso interesse della politica e delle farraginosità dei meccanismi delle organizzazioni, abituate a logiche troppo spesso corporative. «Bisogna ragionare sulla cornice comune» ha ripetuto spesso Juan Antonio Pedreno, presidente di Social Economy Europe, parlando delle varie esperienze comunitarie. «Francia, Portogallo, Spagna e Bulgaria hanno una legge sull’economia sociale. In alcuni Paesi è stato più facile, in altri il processo è stato più lungo e complesso, ma in generale sono più avanti dell’Italia». Siamo tra i primi in Europa per organizzazioni, per peso economico e per numero di occupati, eppure il modello qui fatica a decollare. Gianluca Salvatori di Euricse ha citato durante il suo intervento alcuni dati rilevanti sulla social economy: in Europa le organizzazioni che vi appartengono sono più di 4,3 milioni, con 11,5 milioni di lavoratori diretti e il 6,3% di occupazione complessiva nei membri dell’Unione. Inoltre, contribuisce al Pil europeo per 950 miliardi, una fetta analoga a quella dell’industria automobilistica. Per Salvatori sono tre le tappe storiche da evidenziare: «la prima, negli anni della ricostruzione post-bellica, in cui si trovò un equilibrio tra Stato e mercato. Poi, dopo la crisi degli anni ‘70, prima economica e poi culturale, questo equilibrio si è rotto e l’economia si è imposta sulla politica. Fino alla prima decade del millennio siamo cresciuti nell’illusione che il mercato fosse un potere ordinante che da solo poteva rispondere a ogni problema, orientando e guidando lo sviluppo. Dal 2008 e con tutte le successive crisi, della finanza, dell’economia reale, del debito pubblico, dell’area euro, energetica, pandemica e bellica, si è persa anche l’idea che il mercato sia onnipotente. Oggi c’è la sensazione che nessuno abbia il controllo della realtà». L’economia sociale si inserisce, dunque, in questo vuoto, che è anche di fiducia e di rappresentanza, «e in questo caso è giusto parlare di economia sociale e non di terzo settore perché bisogna aggredire il problema alla radice, utilizzando la stessa lingua di chi attraverso il profitto genera disuguaglianze».

«Abbiamo creato il delivery del welfare»

Nel corso dell’evento si è parlato anche di diverse azioni concrete già avviate. A Bologna, ad esempio, è nato «un piano di sviluppo territoriale dell’economia sociale», come ha raccontato la responsabile Daniela Freddi. A Torino camera di commercio, comune, città metropolitana, università e politecnico hanno creato un hub per aderire ai progetti europei dedicati all’economia sociale: a Torino Social Impact hanno aderito già oltre 330 realtà tra imprese, istituzioni, operatori finanziari e soggetti del terzo settore. Un problema ricorrente è stato evidenziato da Luigi Corvo dell’Università Milano Bicocca: «Chi nasce per creare valore sociale è penalizzato rispetto a chi persegue il valore finanziario. Quando un ente presenta un budget gli viene corrisposta una cifra pari ai costi, nessuno riconosce la creazione di valore aggiunto. E poi li chiamiamo imprenditori sociali…». La considerazione dell’esperto è piuttosto amara: «Abbiamo creato il delivery del welfare, per farlo consegnare a chi costa di meno, svalorizzandone la professionalità. Così è fuori luogo anche parlare di co-progettazione, perché diventa una sorta di esternalizzazione dei servizi al minimo costo». L’economia sociale non è un’economia del risparmio. E di questo si può parlare di più, in ogni sede, dal Parlamento alle università. «Confindustria ha creato la Luiss, qual è il nostro luogo di incontri e di condivisione del sapere?» si è chiesto ancora Corvo.

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