CLOSE: AMICIZIA E RICERCA DELL’IDENTITÀ A 13 ANNI
Una profonda storia di amicizia e ricerca dell'identità raccontata attraverso il legame tra due ragazzi di 13 anni, Léo e Rémy. È Close, di Lukas Dhont, al cinema
09 Gennaio 2023
Léo e Rémy, due ragazzini, giocano e corrono felici, liberi, spensierati, tra i prati in fiore. Sono ancora in grado di giocare con l’immaginazione, di sentirsi come soldati, o guerrieri. E poi di correre, correre, correre. Si conoscono da quando sono piccoli e passano tanto tempo insieme. Uno suona l’oboe e l’altro fantastica sul suo possibile successo e di fare il suo manager. Ma arriva il momento di iniziare la nuova scuola, dove sono ancora in classe insieme, e qualcosa cambia. Alla nuova scuola i ragazzi parlano, si fanno domande. «State insieme? Sembrate molto intimi per essere solo amici». Quello che vi stiamo raccontando è un film, uno dei più belli visti su quella terra di mezzo che è l’adolescenza. Si chiama Close, è diretto da Lukas Dhont, è stato presentato in concorso al 75° Festival di Cannes, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria, e nella sezione della Festa del Cinema di Roma Alice nelle città. Ora arriva finalmente al cinema anche in Italia. È una profonda storia di amicizia e sulla ricerca dell’identità, raccontata attraverso il legame tra due ragazzi di 13 anni, Léo e Rémy, uniti da un affetto fraterno. Un evento inaspettato cambierà per sempre le loro vite, mettendo in discussione il loro legame. Close è un profondo e toccante coming of age, una storia di formazione che racconta il delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza, interpretata con grazia e naturalezza dai due giovani protagonisti.
Quei ragazzi che devono prendere le distanze dalle emozioni
«Un giorno sono andato a visitare la mia vecchia scuola elementare» ha raccontato il regista Lukas Dhont. «I ricordi sono tornati alla mente, facendo riemergere quel tempo in cui era davvero difficile essere me stesso, senza filtri. I ragazzi si comportavano in un modo, le ragazze in un altro, mi sono sempre sentito come se non appartenessi a nessun gruppo. Essere intimo con un altro ragazzo sembrava solo confermare le supposizioni che altri avevano sulla mia identità sessuale. Ho cercato di fare ordine tra questi sentimenti, mettendo qualche parola nero su bianco: amicizia, intimità, paura, mascolinità…e ne è emerso Close». Close in inglese significa vicino. Ed è proprio in questa parola che sta tutto il senso del film. Uno dei due ragazzi comincia a soffrire la vicinanza dell’altro, ad allontanarsi, a evitare che il contatto fisico avvenga. E finisce che la rabbia venga sfogata anche con le botte, con lo scontro fisico. «Il film guarda ai giovani ragazzi che devono prendere le distanze dalle emozioni» ci spiega Lukas Dhont. «I giovani uomini devono essere indipendenti, competitivi. Sono i tratti a cui si attribuisce un valore e che contraddistinguono la mascolinità. A un rapporto di tipo emotivo non si dà importanza e viene soffocato da questi altri tratti. Dobbiamo capire che, se vogliamo trovare intimità, non lo dobbiamo fare trovandola solo nel sesso e non nell’amicizia. I ragazzi man mano che crescono cercano di trovare maggiore distanza tra loro stessi».
Impariamo il latino, la matematica, ma nessuno ci insegna a esprimerci
Una delle chiavi del film è il non detto. Quelle sensazioni che, a quell’età, si provano a proposito di identità, orientamento sessuale, o anche solo di bisogni, e che non si possono dire, perché ci si vergogna, perché non si trovano le parole. O perché non si sa a chi dirlo. E tenere tutto dentro può fare molto male. «Credo che il non detto, tutto ciò che non siamo in grado di esprimere in modo verbale, sia un tema del film» ci racconta il regista. «Molto spesso i giovani esprimono qualcosa per la prima volta e il senso di colpa di questo sentimento trova posto nel nostro corpo. Cresce, cresce e non siamo in grado di esprimerlo, di tirarlo fuori. L’idea di quei sentimenti che si provano ma non siamo in grado di esprimere è stata molto presente nella mia via da ragazzo. È importante metterlo sullo schermo perché è un modo di invitare i ragazzi a parlare». «Noi trascorriamo la vita andando a scuola, imparando il latino, la matematica, ma nessuno mai ci insegna a esprimerci, a trovare il linguaggio interiore» continua. «Credo sia una mancanza della nostra società. Oggi la salute mentale è oggetto di conversazione, qualcosa si cui si parla, ma a volte da parte degli adulti questo manca. I miei genitori mi hanno dato sostegno, supporto. Ma non avevano termini che potessero descrivere quello che io provavo e loro provavano. A loro non era stata data la possibilità di esprimere con parole i loro sentimenti. Non avevano ricevuto dai loro genitori questo tipo di mezzi»
Ascoltare dei tredicenni parlare dei loro amici
Lukas Dhont, da ragazzo, voleva fare il ballerino. Così, dice, quando scrive un film lo fa più come un coreografo che uno sceneggiatore: pensa al movimento, alla vicinanza, alla distanza. E riesce a sorprendere con la delicatezza, la tenerezza con cui, in quello che è un film molto duro, maneggia la situazione, e per come si prende cura dei protagonisti. Dhont prende la lezione dei Fratelli Dardenne per andare oltre, trovare il suo modo di fare cinema. Il risultato è impressionante per la verità e per l’intensità che ha il film. Ma dipende dal lavoro che è stato fatto con i giovani protagonisti. «Loro hanno letto la sceneggiatura ancor prima che completassi il casting: era importante non solo che fossimo noi a scegliere loro ma che fossero anche loro a scegliere noi» spiega il regista. «Abbiamo iniziato parlando dell’amicizia al centro delle loro vite. Sono due ragazzi che stanno crescendo per diventare giovani uomini e dovevano capire l’aspetto delle pressioni che hanno a che fare con la mascolinità. Nel corso di sei mesi abbiamo passato tanto tempo insieme, ma non abbiamo provato una singola scena. Mangiavamo insieme, passeggiavamo sulla spiaggia. E intanto chiedevo loro cosa ne pensavano. Li ho trasformati in detective, volevo che scoprissero cosa accadeva ai due ragazzi. Dal momento che si tratta di ragazzi, essere parte attiva è qualcosa che li intriga molto li spinge a creare. E creare un pezzetto per volta fa sì che acquistino fiducia e che capiscano quale sia il loro ruolo nel film, che entrino nel ruolo e capiscano la libertà di esprimersi». È in questo modo che è nata la magia di questo film. Un film nato grazie all’ascolto. «Credo che le cose più intelligenti siano venute da questi tredicenni, maschi e femmine. Il punto di partenza del film è stare ad ascoltare dei tredicenni parlare dei loro amici maschi e farli parlare in maniera amorevole, tenera. Che ci ricordasse come eravamo noi».
Rimuovere le pareti
Il discorso con Lukas Dhont si allarga, e si arriva a parlare della nuova generazione. «La generazione più giovane cerca di smantellare, di destrutturare quella che è la società patriarcale che è stata costruita, di rimuovere gli schemi, le categorie, le pareti che vengono poste tra uomo e donna, tra essere etero e omo. C’è maggiore fluidità». Torniamo per un attimo da dove siamo partiti, da quei ragazzi ancora liberi di correre in questo campo di fiori. Dhont è cresciuto nella campagna fiamminga, dove da ragazzo correva in mezzo ai campi con i suoi amici. È venuto naturale iniziare il film così. Ma dietro quell’immagine c’è molto altro. «Andando a dissezionare l’immagine credo che ci sia dentro un profondo simbolismo» ragiona il regista. «C’è l’innocenza, l’infanzia, quella condizione piena e carica di colori. Ma i fiori sono anche simbolo della fragilità. Quando vengono tagliati dalle macchine in modo brutale cambia il tono del film: diventa più dark, più scuro».