SELFIE: IL FILM CHE RACCONTA NAPOLI, OLTRE LA CAMORRA
Il film di Agostino Ferrente è la storia due ragazzi del rione Traiano, che provano a fare un lavoro onesto e a stare lontani dalla malavita.
20 Febbraio 2019
Un’altra Campania è possibile. E un’altra narrazione è possibile. In un momento in cui i mass media continuano a raccontare Napoli e dintorni come i luoghi della Camorra, a mostrare, in maniera più romanzata o più vicina alla realtà, le persone che comandano, o finiscono per affiliarsi, alla criminalità organizzata, o gli “eroi” che vi si oppongono, arriva un film sorprendente che riesce a mostrarci tutto sotto un’altra luce.
Proprio in quel festival di Berlino dove è stato premiato La paranza dei bambini, il film di Claudio Giovannesi tratto dal libro di Roberto Saviano, nella sezione Panorama è stato presentato un film che ci racconta i mondi narrati dall’autore di Gomorra, ma da un punto di vista completamente diverso. È il film Selfie, di Agostino Ferrente, girato attraverso gli smartphone di due ragazzi di un quartiere di Napoli, il rione Traiano. Uno sogna di fare il barbiere e l’altro il garzone in un bar. Il film è dedicato a Davide Bifolco, un ragazzo di 16 anni ucciso dai Carabinieri che lo avevano scambiato per un criminale, e a un’associazione che dà ripetizioni ai ragazzi che hanno problemi a scuola. Sarà nelle nostre sale in aprile.
NEL NOME DI DAVIDE. Agostino Ferrente, il regista de L’orchestra di Piazza Vittorio e di Cose belle, ci ha raccontato come è nato il film. «Nel documentario convergono sempre esigenze narrative-artistiche con finalità della documentazione della realtà», ha spiegato. «La differenza tra un saggio e un film è che il secondo deve ambire a essere un’opera d’arte. Dal punto di vista del documento, ero stato colpito dall’omicidio di un ragazzino di 16 anni, incensurato e innocente, che, mentre era su un motorino, era stato inseguito da una pattuglia dei carabinieri che lo avevano scambiato per un latitante; una volta speronato il motorino, il ragazzino è caduto, ha provato a rialzarsi e gli è arrivato un colpo di pistola».
«Quello che mi ha colpito, oltre alla tragedia in quanto tale, era il tritacarne del pregiudizio sociale, per cui avevano sentenziato che era un delinquente», continua. «Non lo era, non aveva nessun precedente. Anche se lo fosse stato, avrebbe comunque avuto diritto a un processo: non lo uccidi per strada perché hai deciso tu».
UN FILM SELFIE, MA NON TROPPO. Così Ferrente si è recato sul posto, al Rione Traiano, a parlare con il papà di questo ragazzo. «Non era nelle mie corde fare un’inchiesta, un reportage» confessa. «Volevo raccontare il contesto, e per farlo ho ideato un metodo che ha a che fare con l’autorappresentazione, che si riallaccia a un ragionamento sui media. Volevo raccontare due ragazzi dell’età di quello che era stato ucciso, e che lo conoscessero. Ho trovato Alessandro e Pietro, a cui ho dato un’iPhone con la possibilità di filmarsi, in modalità “selfie”: non è stata una delega, ho semplicemente annullato il filtro della telecamera e dell’operatore, per poter avere un rapporto immediato e diretto per i miei personaggi. Per quanto riguarda le scelte narrative ed estetiche ho fatto il regista. Ma loro si autoriprendono. Dal punto di vista estetico, chiedevo loro di usare il cellulare come se fosse uno specchio, però senza mettersi centralmente, ma sposandosi di lato per raccontare la loro realtà».
Proprio perché Napoli, le sue periferie, il suo immaginario, erano già stati ampiamente raccontata, tutto quello che avrebbero mostrato nel film Selfie rischiava di diventare l’ennesima cartolina. «Invece di guardare la luna, mi sono concentrato sul dito» ci spiega il regista. «Non su quello che guardano, ma sugli occhi di chi guarda. È anche una metafora: vicino al loro rione c’è la tomba di Leopardi, e loro non sanno chi sia; uno dei ragazzi ha abbandonato la scuola: gli era stato chiesto di imparare “L’infinito”, e oggi ha trovato questo mezzo per impararla. Così scopre un’analogia esistenziale tra la solitudine del poeta, con il colle che preclude la vista altrove, e la solitudine sociale dei ragazzi: anche noi qui è come se avessimo un muro».
L’ASSOCIAZIONE DAVIDE BIFOLCO. Il nome di Davide oggi è portato avanti dall’Associazione Davide Bifolco – Il dolore non ci ferma, che non è stata coinvolta direttamente nel film, ma che è dedicato a loro. «Sono dei ragazzi che stimo moltissimo» ci racconta Agostino Ferrente. «Sono dei ragazzi che fanno volontariato, e in modo gratuito fanno ripetizioni ai ragazzi i cui genitori non si possono permettere questo servizio; o economicamente, perché non hanno il denaro, o praticamente, perché sono magari sono agli arresti. Per interrompere il circolo vizioso di predestinazione loro aiutano in volontariamente i ragazzi. Il padre di uno dei due ragazzi protagonisti, nel film Selfie racconta dell’abbandono scolastico del figlio, e della loro scelta di fare un lavoro onesto in una realtà dove non è facile, dove nessuno ti aiuta. I ragazzi, alla minima difficoltà, abbandonano la scuola: i genitori che hanno studiato o ti aiutano, o ti pagano le lezioni, gli altri non possono aiutare i ragazzi né hanno soldi per pagare le ripetizioni. E di fatto si crea circolo vizioso». «Le istituzioni sono assenti» aggiunge. «Non c’è un teatro, una biblioteca, non c’è un centro aggregativo, non c’è un luogo per imparare i mestieri. Ci sono solo sale da biliardo, bar e motorini: cosa ti vuoi aspettare?»
ESSERE ONESTI. La vera rivoluzione che racconta il film Selfie è che Alessandro e Pietro provano a essere onesti. Ma, come si può immaginare, non è facile. «Uno dei due ha studiato come parrucchiere ma non lo assumono», racconta Ferrente. «I lavori non ci sono, la scuola la abbandoni, e va finire che il ragazzo va a spacciare. La presenza dello Stato c’è quando servono le retate della polizia. Che poi è come chiudere la stalla quando sono scappati i buoi».
Nel film Selfie si racconta anche come questa scorciatoia dei soldi facili, che abbiamo visto in molti film, come nelle notizie di cronaca, sia in realtà un inganno. «Perché rischi o la vita o l’arresto, per stare otto ore sotto il sole a spacciare», spiega il regista. «Quando uno vede nella narrazione televisiva il boss, deve capire che comunque quello è uno, e tutti gli altri sono manodopera. Se chiedi ai ragazzi: “preferiresti un lavoro garantito o rischiare la vita?”, credo che tutti risponderebbero il lavoro. I nostri personaggi sono due ragazzi che cercano in tutti i modi di farcela nonostante i sacrifici, alzandosi alle sei di mattina, facendo lavori onesti».
NON SOLO CRIMINALI O EROI. Agostino Ferrente è riuscito davvero a raccontare una Napoli diversa, non nascondendo i problemi, ma provando a mostrare nuove soluzioni. A dare una nuova rappresentazione delle persone che ci vivono. E a spezzare l’associazione ormai immediata tra il capoluogo campano e la Camorra. «Penso che l’associazione mentale sia abbastanza documentata e raccontata ovunque», risponde Ferrente. «Io nel mio piccolo faccio film di innamoramento, mi innamoro dei miei personaggi, non avrei potuto farlo su ragazzi di 14 anni che fanno i camorristi. Quando fai il documentario racconti persone vere. E il documentario si assume una responsabilità enorme nel raccontarli». «C’è un filone televisivo che dice che chi si oppone alla Mafia viene ammazzato, chi non paga il pizzo viene ammazzato». conclude il regista del film Selfie. «Si rischia di dare un messaggio controverso: da una parte si osanna l’eroe, dall’altra dici che se ti opponi sei costretto a diventare un eroe. E quindi una vittima. Perché non raccontare la storia di chi, opponendosi, ha vinto ed è rimasto vivo? Nel mio piccolo, cerco di raccontare le cose belle: ci sono anche i fiori tra le rovine. La violenza è cinegenica, da Scorsese a Coppola a Cimino ha sempre conquistato il pubblico. Io sono un fan di Scorsese, ma faccio film di innamoramento».
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