FUOCOAMMARE. DEDICATO AI MIGRANTI. E A LAMPEDUSA
“Fuocoammare”, il film di Rosi che ha vinto Berlino, è un messaggio recapitato nel cuore dell’Europa
23 Febbraio 2016
“Fuocoammare” di Gianfranco Rosi è tornato da Berlino con l’Orso d’Oro per il miglior film. Racconta “da dentro” Lampedusa, gli sbarchi dei migranti e la vita delle persone che abitano l’isola. Chi conosce Rosi può immaginare bene come sia questo lavoro. È qualcosa di lontanissimo dai reportage impersonali e distaccati che ci arrivano dalle tv. È lontanissimo da toni gridati, da accuse e recriminazioni. Rosi, come è nel suo stile, sceglie di immergersi nel territorio che racconta (ha vissuto lì per un anno), di diventare parte dell’ambiente, di vivere tra la gente che riprende, con il suo metodo fatto di empatia e di simbiosi con i personaggi che racconta.
Rosi, nel suo “Fuocoammare”, sceglie così di raccontare da un lato la vita degli abitanti di Lampedusa, che scorre tranquilla, scegliendo di seguire il punto di vista di un bambino, Samuele, che vive tra la scuola, le barche e i giochi con la fionda. E dall’altro la realtà degli sbarchi e dei naufragi, raccontata dall’interno, sulle barche dei soccorsi, a pochi metri da corpi feriti, sfiniti, moribondi. E a volte anche morti, con una delle sequenze più forti del film. L’innocenza e la fine di questa così si mescolano. Il trait d’union è il medico del pronto soccorso locale, persona di rara umanità, l’unico che parla direttamente agli spettatori. Ci spiega alcune cose importanti, come i posti di prima, seconda e terza classe che, dal ponte alla stiva, regolano le posizioni dei migranti, e quindi le loro possibilità di sopravvivenza. O ci mostra le ustioni spesso mortali per molti ragazzi, causate dal mix di carburante e acqua che sui gommoni finisce per inzuppare le loro vesti, e condannarli a dolori atroci. Alcune cose le vediamo, altre ce le racconta. E ci ricorda una cosa da non sottovalutare: anche se in molti credono che a furia di vedere ogni giorno queste cose ci si abitui, alla morte, a certi corpi straziati, non ci si abitua mai. E ci si porta dentro tutto. Aver portato questa storia a Berlino, nel cuore di quell’Europa che forse soltanto ora si sta rendendo conto dell’ecatombe che va in scena da anni, e si sta muovendo, è un merito enorme.
Fuocoammare: un quadro espressivo potente
“Fuocoammare” è quello che si usa definire un film necessario. Eppure non sono mancate le discussioni. Si è detto che il film non dica niente di nuovo sugli sbarchi. Che parli troppo delle ferite e delle autopsie, di bambini che hanno perso la vita. O che faccia parlare troppo poco un medico che vorremmo ascoltare per ore. E soprattutto, che la correzione del colore, in postproduzione, sia incompatibile con le scene della morte che forse andrebbe mostrata, per rispetto, così com’è. Tutti appunti condivisibili. Ma anche da superare per capire l’importanza di questo film, il lavoro e le scelte di un cineasta.
Che non dica niente di nuovo sugli sbarchi è da capire: a uno sguardo assuefatto ai tg, a chi magari per stanchezza o per non soffrire cambia canale, vedere certe cose sul grande schermo, dove non hai il telecomando, dove non puoi scappare, può aiutare sicuramente a capire meglio. Il medico sì, vorremmo ascoltarlo per ore, per quello che ci spiega e per l’umanità con cui lo fa. La sua pietas sincera per i defunti fa sì che i racconti, seppur terribili, non vadano mai al di là della sensibilità comune. Non ha troppo spazio perché Rosi ha scelto di raccontare un contesto, di mostrare come le tragedie spesso siano a un passo dalla vita di tutti giorni che non può, e non riesce, a fermarsi (come ha mostrato un reportage de Le iene in Siria). Quanto al colore, non è detto che un’immagine corretta in postproduzione manchi di rispetto a qualcosa di reale e da maneggiare con la massima cura come la morte. Un artista ha diritto a rendere la sua opera omogenea, potente, a rendere il quadro espressivo secondo le sue possibilità, proporre a chi guarda un prodotto valido, curato e funzionale a quello che deve dire. Le canzoni di protesta non devono per forza essere scarne ed essenziali per il tema che toccano. E Bob Dylan, dopo poco, ha abbandonato la chitarra acustica per quella elettrica.