GESTAZIONE PER ALTRI: SIANO LE DONNE AD AVERE LA SCELTA
Parlare di utero in affitto è sottolineare un fine commerciale, ma la maternità surrogata può essere solidale. Serughetti: «Chi lo nega non fa i conti con l’immensa quantità di pratiche solidali a cui siamo disponibili a prestare il nostro tempo, il nostro denaro e la nostra capacità di cura»
27 Settembre 2023
Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. E allora, quando parliamo di maternità surrogata o di gestazione per altri, tema piuttosto dibattuto in questi anni, evitiamo di parlare di “utero in affitto”: è un termine che usa chi è di parte, e di solito per sottolinearne quelli che, secondo lui, sarebbero gli aspetti riprovevoli. Abbiamo deciso di parlarne con Giorgia Serughetti, docente del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano-Bicocca, che si è spesso occupata del tema. Ma, per inquadrare il tema, occorre fare un passo indietro. A quando il movimento Se Non Ora Quando – Libere, a dicembre 2015, decise di lanciare un appello per mettere al bando la maternità surrogata, raccogliendo le firme di personalità dello spettacolo e del mondo politico, in particolare tra le fila del Partito Democratico. In Italia però questo tema è salito all’ordine del giorno nel momento in cui la sua strada si è incrociata con il dibattito sul disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili. Grazie alla tempistica, non casuale, dell’appello uscito in Italia, su quello che viene chiamato “utero in affitto” erano fiorite le critiche di esponenti politici di vari partiti, uniti nel loro essere contrari alla previsione di legge sulla stepchild adoption (la possibilità di adottare i figli del partner dello stesso sesso) contenuta nel DDL in discussione in Parlamento. In realtà, la nascita attraverso maternità surrogata riguarda solo una piccola minoranza degli attuali figli di coppie omosessuali, mentre in tutto il mondo riguarda soprattutto le coppie eterosessuali sterili. Ma l’unione di questi due temi ha dato origine a un confronto acceso, ovviamente tra attivisti Lgbtq+ e la destra omofoba, ma anche tra posizioni diverse all’interno del femminismo.
La legge Cirinnà e il fantasma della gestazione per altri
La cosa ha dato vita a una sorta di inedita alleanza tra il mondo cattolico, da sempre paladino della “famiglia naturale” ed esponenti del femminismo internazionale, in una battaglia che riguarda i corpi delle donne. «Riusciamo a comprendere la battaglia di oggi, quella che fondamentalmente sta facendo Giorgia Meloni, contro la gestazione per altri, se ripercorriamo questa breve storia» ragiona Giorgia Serughetti. «Questo serve perché il tema della gestazione per altri emerge come problema, come tema che merita discussione, creando poi una divisione all’interno del mondo femminista quando in Italia si comincia a parlare della legge Cirinnà. Prima di allora c’era già stata la Legge 40 e in realtà c’erano già stati casi fin dagli anni Novanta che avevano fatto discutere sulla questione della surrogazione di maternità. Non è un fenomeno nuovo. Tanto che la Legge 40 vieta la maternità surrogata perché è come se intendesse fare ordine in una materia su cui c’era quello che veniva definito il far west procreativo. La legge 40 la vieta ma viene fatta oggetto di un referendum in cui la partecipazione è bassissima, anche perché è una materia su cui mancava proprio un interesse pubblico. Sul tema della procreazione medicalmente assistita c’era già un numero notevole di coppie che faceva ricorso, ma sulla gestazione per altri no. Il referendum in realtà intendeva togliere limiti alla pratica procreazione assistita che poi è stata demolita dalla consulta perché era troppo coercitiva». «Nel 2015 con il disegno di legge Cirinnà sulle unioni civili torna il tema della Gpa, con un tempismo perfetto» continua Giorgia Serughetti. «Il fantasma della Gpa: lo chiamai così perché riguardava un numero molto piccolo di casi. Ma quel fantasma, agitato sulle unioni civili, servì a rendere spaventosa la genitorialità omosessuale, che improvvisamente veniva schiacciata su una pratica eticamente controversa, che suscita in molti di noi domande – sui risvolti etici e politici – e in qualche modo ha fomentato un clima ostile, soprattutto a quell’articolo 5 della legge, poi stralciato, che riguardava la stepchild adoption, che avrebbe favorito, in generale, il riconoscimento automatico dei figli del genitore non biologico, soprattutto in casi di procreazione assistita: la maggior parte di questi casi sono figli di due donne che non fanno ricorso alla gpa. Lo stralcio è avvenuto per consentire l’approvazione della legge; però ha lasciato questo vuoto sul riconoscimento della doppia genitorialità. Su questo fondo ha continuato a operare quella ostilità quella denigrazione, per andare a colpire la doppia genitorialità, di due donne e di due uomini. Mentre non interessa a nessuno parlare delle coppie eterosessuali che fanno questa pratica, che sono la maggioranza. Far coincidere i due temi – Gpa e coppie omosessuali – è stata un’operazione politica che ha permesso di bloccare qualunque avanzamento sul piano delle famiglie arcobaleno».
Dire “utero in affitto” è evidenziare gli aspetti riprovevoli
Ma torniamo a dove avevamo iniziato, alle parole. Giorgia Serughetti scrive che i termini “maternità surrogata” o “surrogazione di maternità”, “gestazione per altri” o “d’appoggio”, maternità “di sostituzione” o “per procura” sono alcune delle espressioni utilizzate nelle diverse lingue per nominare la varietà di pratiche messe in atto quando una donna si rende disponibile a portare a termine una gravidanza per conto di singoli o coppie sterili. In Italia, come abbiamo detto, la dicitura chiaramente denigratoria “utero in affitto” è usata per sciatteria o sensazionalismo giornalistico, ma soprattutto, in modo mirato, per evidenziarne gli aspetti riprovevoli e chiederne la messa al bando. “Gestazione per altri” è la formula favorita dal movimento Lgbtq+. «Utero in affitto lo usano soltanto gli oppositori di questa pratica» ci conferma Giorgia Serughetti. «In realtà, in sé parlare di utero vuol dire ridurre la donna al proprio utero, che è ciò che intendono stigmatizzare soprattutto le femministe. Dall’altra parte dire affitto vuol dire dare una connotazione di mercificazione del corpo che degraderebbe le donne a puri mezzi. In questo modo mettono l’accento sugli aspetti più problematici». «Parlare di gestazione per altri e altre vuol dire che spesso dall’altra parte non ci sono solo due uomini, ma anche delle coppie dove c’è una donna che non può avere un figlio e ricorre all’aiuto di un’altra donna» continua. «Chi si oppone a questi termini dice che parlare di gestazione per altri è un modo normalizzante di una pratica dove si sta parlando dell’impegno del corpo di una donna per nove mesi di gravidanza per la nascita di un bambino che non sarà suo. Ma la questione, anche per potersi orientare verso dei giudizi di valore, è legata alla possibilità e al desiderio di mettersi in ascolto dell’esperienza. Significa ammettere che la maternità surrogata possa essere anche un atto d’amore, di benevolenza, o comunque qualcosa che non ha connotazioni di sfruttamento e di potere. Dire invece che è sempre una forma di sfruttamento, di assoggettamento, di espropriazione del potere generativo delle donne da parte del mercato vuol dire assumere una posizione che non tiene conto delle voci, che sono sempre di più, che sono tante e diverse. Ci sono relazioni positive durante la gravidanza, relazioni che durano dopo la nascita, il senso di un’impresa comune con i genitori intenzionali. Tutte queste cose sono esperienze reali. Ci sono tutte e due le esperienze, e dobbiamo tenere conto di entrambe».
Il tema infertilità è un grande assente dal dibattito
L’Italia è uno dei pochi Paesi che vietano espressamente la gestazione per altri. In molti altri Paesi, però, gli accordi di surrogazione sono considerati nulli e vale solo il concetto giuridico per cui mater semper certa est: la donna che partorisce un bambino ne è considerata la madre a tutti gli effetti. In altri ancora, come la Grecia o il Sud Africa, è proibita la gestazione per altri commerciale, ma è ammessa quella altruistica. Su questa torneremo dopo. Per restare in Italia, il vero problema, che nessuno tocca, è che il 20-30% delle coppie, nel 70% dei casi con età compresa tra i 35 e i 40 anni, ha problemi di infertilità. «Il tema infertilità è un grande assente dal dibattito», ci conferma Giorgia Serughetti. «L’unica soluzione che nel tempo è stata immaginata è stata quella di sensibilizzare le persone a fare figli presto, a curare la propria salute riproduttiva e fare figli nell’età adeguata. L’infertilità è il prodotto dell’avanzamento dell’età, è un grande fattore e l’età avanza perché cambia il mondo del lavoro e cambiano i progetti familiari. Un approccio alla salute che sia più attento ai servizi per la fertilità, che aumenti i percorsi e le cure, la sensibilizzazione ad esami precoci sarebbe un modo molto importante di affrontare il problema».
Se esistono le possibilità per aiutare chi vuole avere figli è ideologico chiudere la porta
«Posto che questo tema riguarda un gran numero di coppie, tanto il tema della procreazione medicalmente assistita, tanto quello della gestazione per altri – ovviamente la prima è consentita nel nostro Paese, l’altra è vietata – dovrebbero essere affrontati un po’ laicamente. Io non sono per dire che esiste un diritto delle persone ad avere un figlio, non è questo il punto. Ma se esistono le possibilità, in condizioni di protezione di tutti i soggetti e di tutte le vulnerabilità, eticamente rispettose della dignità delle persone, per aiutare chi vuole avere dei figli, è piuttosto ideologico chiudere completamente la porta. Le proposte che parlano di gestazione per altri altruistica, che dicono mettiamo da parte il tema del denaro, che crea complicazioni importanti, la possibilità che esistano atteggiamenti solidali non è da escludere».
La gestazione per altri intesa come dono
Si parla infatti sempre di questa pratica come qualcosa di commerciale, ma raramente si riflette sul fatto che c’è chi possa offrire parti o capacità del proprio corpo in forma di dono. «Io penso che chi nega questa possibilità, che la considera solo un’ipocrisia che maschera un’ipotesi di sfruttamento, non faccia i conti con l’immensa quantità di pratiche solidali a cui siamo disponibili a prestare il nostro tempo, il nostro denaro e la nostra capacità di cura» riflette Giorgia Serughetti. «Questo tipo di disponibilità che riguarda la pratica solidale è evidente che ci sia nella realtà: quando si tratta del proprio corpo sembra naturalmente sempre più difficile, ma in fondo, a pensarci bene, c’è una partecipazione intima, coinvolgente, con la potenzialità di dare un senso anche diverso alla pratica stessa. Chi si mette in una pratica solidale legata alla gravidanza fa una scommessa sulla possibilità di relazioni future in cui questa relazione non viene meno ma continua a dare un senso alla propria vita. Non sarà una relazione di genitorialità, ma quella di chi ha portato avanti la gravidanza con i genitori che curano la crescita della bambina. Non posso pensare che questa cosa sia fuori dal nostro orizzonte, dalla nostra capacità di attori solidali». «In realtà esistono queste pratiche e le ragioni per cui lo fanno sono le più svariate» continua. «È difficile con persone sconosciute, è più facile se sei dentro relazioni di prossimità, di vicinanza, di amicizia. Io sono per non escludere affatto che sia possibile. Per di più qualche volta può avere un valore politico, di partecipare a una costruzione collettiva di un modo diverso di essere famiglia. Una famiglia in cui non c’è solo la coppia genitoriale, ma altre figure che concorrono al progetto di crescita del bambino o della bambina».
La prima e l’ultima parola dovrebbero spettare alla donna
Ma quale sarebbe allora il punto di vista giusto per affrontare la questione? «Io penso che si debba partire da un principio politico e femminista» ci risponde Giorgia Serughetti. «Quello per cui la prima e l’ultima parola sul proprio corpo spetta alla donna. Questo cosa vuol dire? Ammettendo come possibile il fatto che una donna possa desiderare di portare avanti una gravidanza per altri ed altre, deve essere lei ad avere il diritto e la libertà di decidere per tutto il processo che riguarda la sua gestazione e il parto. Quella esperienza di nove mesi non è paragonabile ad altre prestazioni d’opera, per il suo carattere è trasformativo. Significa che anche dopo il parto, in presenza del bambino o della bambina nata, deve essere possibile per la donna anche cambiare idea. È un principio di fonte femminile e femminista che non rimette a qualcun altro la possibilità di decidere se è lecito e come portare avanti una gravidanza». «Al tempo stesso toglie di mezzo alcuni problemi» aggiunge, «come la questione dei contratti e del denaro: chi ha desiderio di affidarsi a una pratica investendo migliaia di euro nel momento in cui sta alla donna portatrice di venire meno all’accordo? È una cosa che effettivamente agisce contro un’idea di contrattualizzazione commerciale e al tempo stesso garantisce che si faccia ordine nelle relazioni che circondano questa pratica mettendo al centro la donna che porta avanti la gravidanza. Penso che questo sia un modo femminista alternativo alla prospettiva proibizionista di pensare questa pratica. Non banalizza l’esperienza della gravidanza, c’è una libertà per le donne, ma c’è un riconoscimento dell’importanza e del valore di questa pratica, dentro cui si riconosce il diritto di una donna a portarla avanti, a interromperla, a portarla fino in fondo, mantenendo saldo il diritto di mettere chi nasce nelle mani dei genitori intenzionali o trovarsi una creatura nata e non farcela, cambiare idea. Potrebbe essere il modo di normarlo che più corrisponde a queste serie di principi che sono andata elencando».