SE VOGLIAMO LA PACE, DOBBIAMO DARE SPAZIO AI GIOVANI
Il 12 agosto è la Giornata Internazionale dei Giovani. L'ONU chiede di dare loro più spazio nel prevenire e affrontare i conflitti. E anche il terrorismo.
10 Agosto 2017
Per costruire nuovi percorsi di pace nel mondo è necessario che ai grandi tavoli decisionali siedano i giovani. È l’appello che le Nazioni Unite lanciano in occasione della Giornata internazionale dei giovani (Youth International Day), che si celebrerà in tutto il mondo il 12 agosto 2017. “Youth Bulding Peace”, tema di quest’anno, è ispirato alla risoluzione 2250, un documento emanato a fine 2015 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU e interamente dedicato al ruolo dei giovani all’interno dei processi di sicurezza nazionale.
Una chiara richiesta agli Stati membri di coinvolgere giovani leader nella lotta al terrorismo e nei processi di riconciliazione, in un momento storico in cui circa 600 milioni di giovani (donne e uomini) vivono in zone di guerra e sono esposti al rischio di reclutamento in frange estremiste. Sugli sviluppi della risoluzione 2250 abbiamo parlato con Renato Cursi, membro del gruppo di lavoro “Giovani, pace e sicurezza” presso il Centro Studi Difesa Civile.
La risoluzione 2250 approvata nel 2015 è stata definita un “traguardo storico”. Qual è stato il suo punto di forza?
«Si è trattato veramente di un “traguardo storico”, innanzitutto perché emanata dal Consiglio di Sicurezza, ovvero la massima autorità intergovernativa a livello mondiale sui temi della pace e della sicurezza. Le prime dichiarazioni dell’ONU dedicate al ruolo attivo dei giovani risalgono a più di 50 anni fa, e i primi programmi d’azione a più di 20 anni fa, ma ora gli Stati, le organizzazioni regionali e gli enti della società civile internazionale dispongono finalmente di uno strumento forte per promuovere efficacemente un nuovo protagonismo dei giovani per la pace».
L’Italia quale contributo sta dando all’interno di questo percorso avviato dall’Onu?
«L’Italia ha contribuito all’adozione della risoluzione, trovandosi nella posizione di chi ha un’esperienza da condividere in questo campo. Nel 2015 era già allo studio, ad esempio, la sperimentazione dei Corpi Civili di Pace, consistente nell’invio di un contingente di giovani volontari all’estero in contesti segnati da conflitti di vario genere, con l’obiettivo di ricercare soluzioni alternative all’uso della forza militare per la risoluzione dei conflitti. I primi giovani volontari sono partiti poche settimane or sono e a breve dovrebbe completarsi l’invio del primo contingente. Recentemente, inoltre, l’Italia ha designato due suoi UN Youth Delegates, Giuseppina De Marco e Tommaso Muré, due giovani che saranno impegnati a rappresentare l’Italia e i suoi giovani a New York nei lavori della 72ma Assemblea Generale ONU. Il Centro Studi Difesa Civile (CSDC), infine, sta promuovendo in Italia un network di enti e persone interessate a costruire un’advocacy a livello nazionale ed europeo intorno all’agenda “pace, giovani e sicurezza”».
La risoluzione 2250 evidenzia come «la generazione di giovani di oggi è la più numerosa che il mondo abbia mai conosciuto». Un dato sorprendente per noi italiani. Qual è la radiografia giovanile nel mondo?
«È un dato oggettivo che in Italia fatichiamo a comprendere. Eppure, non ci sono mai stati 1.2 miliardi di giovani al mondo così come oggi. In Africa la popolazione sotto i 25 anni rappresenta circa il 60 % del totale, in Asia e America Latina circa il 40 %. In Europa questa fascia d’età rappresenta un meno esaltante 33 % della popolazione totale, ma i movimenti migratori in corso fanno sì che anche il nostro continente benefici di questa spinta demografica contemporanea che vede protagoniste molte regioni del vicinato».
Il Consiglio di Sicurezza esprime preoccupazione per il reclutamento di giovani all’interno dei circoli radicalizzati del terrorismo, soprattutto per loro capacità di sfruttare la tecnologia informatica per fini non pacifici. A partire da questa risoluzione, che tipi di intervento possono attuarsi negli Stati?
«Tra gli interventi proposti dalla risoluzione 2250, la prevenzione è certamente l’approccio più decisivo nel contesto del contrasto al reclutamento dei giovani per la pace. La prevenzione la si può e deve praticare innanzitutto a scuola, anche nel senso proattivo dell’educazione alla pace, quindi sui social media, investendo in politiche di controllo dei profili che seminano il cosiddetto hate speech, ed infine nelle carceri, luoghi fisici ed esistenziali spesso dimenticati dalla politica e dalla società. Prevenzione, però, significa anche sostegno all’occupazione giovanile. I dati dimostrano infatti una correlazione, non esclusiva ma comunque importante, tra disoccupazione giovanile e adesione dei giovani ai circoli radicalizzati del terrorismo. Laddove fosse troppo tardi per prevenire, invece, la risoluzione 2250 invita gli Stati a dotarsi di programmi specifici per la reintegrazione dei giovani che sono riusciti a uscire dalla radicalizzazione e dalla lotta violenta»
In che misura i giovani possono rappresentare una “soluzione ai conflitti”?
«I giovani dispongono di una conoscenza unica del linguaggio dei loro pari, che li abilita ad essere gli attori più indicati per la divulgazione delle politiche destinate ai giovani stessi e ai bisogni delle nuove generazioni. In quei contesti dove la popolazione giovanile ha un peso demografico comparativamente maggiore, poi, l’assenza di giovani rappresentanti nei tavoli e processi decisionali appare ancora più ingiusta. Ad esempio in Nigeria, un Paese con 188 milioni di abitanti dove più del 60 % del totale della popolazione ha meno di 25 anni, in seguito all’adozione della risoluzione 2250 è stata lanciata la campagna Not too young to run (“Non troppo giovane per concorrere” alle elezioni politiche e amministrative), per abbassare l’età per l’elettorato passivo nel Paese. Pochi giorni fa il Senato nigeriano ha infine approvato il “Not too young ro run Bill”. La nuova legge porta a 25 anni l’età minima per essere eletti nelle Assemblee nazionali dello Stato federale, riduce da 35 a 30 quella per essere eletti nel Parlamento e da 40 a 35 quella per essere eletti Presidenti».
Fino a pochi anni fa si lottava per la pace chiedendo il disarmo nelle nazioni. Oggi, il terrorismo ci ha insegnato che con pochi mezzi (soprattutto informatici) si mettono in piedi stragi. Oltre al disarmo, quindi, quali altre strade vanno percorse?
«Fermo restando che il disarmo costituisce un valore ancora attuale e anzi urgente (basti guardare ai recenti ed allarmanti dati in campo di produzione e commercio internazionale delle armi), è vero che questo da solo non è in grado di escludere del tutto il ricorso dell’umanità alla violenza. Sono piuttosto l’educazione, da un lato, e la giustizia sociale, dall’altro, a garantire una pace positiva e sostenibile, attraverso la gestione e la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Il conflitto in sé non va evitato, anzi è parte integrante della vita di un corpo sociale. A far la differenza è la modalità con cui si affronta e gestisce il conflitto, ed è qui che deve emergere con forza l’adesione ad un approccio nonviolento, secondo l’esempio di tanti testimoni illustri. Recentemente la comunità internazionale ha adottato un’agenda comune che prevede 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile (“SDGs” nell’acronimo inglese) da perseguire fino al 2030. Una strada da percorrere credo sia quindi quella di approfondire le sinergie possibili tra l’Obiettivo 4, “Educazione di qualità” e l’Obiettivo 16, “Pace, Giustizia e Istituzioni”. Da tali sinergie potrebbero sorgere strategie e processi istituzionali capaci di proporre un nuovo paradigma per la costruzione della pace».