GO HOME – A CASA LORO: SE L’ORRORE QUOTIDIANO DIVENTA HORROR
Luna Gualano racconta il suo film, una storia di migranti e intolleranza trasformata in un horror di zombie, per raccontare l’odio di oggi
22 Ottobre 2018
Inizia con una ripresa aerea sul Colosseo di Pietralata, Go Home A casa loro, il film di Luna Gualano presentato alla Festa di Roma, nella sezione parallela Alice nella città, e considerato una delle sorprese del festival. Capiamo subito che siamo in una di quelle periferie dove il conflitto sociale rischia di esplodere più facilmente.
Seguendo una ragazza in bicicletta ci troviamo davanti a un centro di accoglienza, dove un gruppo di estrema destra sta manifestando, con le solite ragioni e le solite frasi fatte. Arrivano dei manifestanti di sinistra, divampa una lotta. Ma, all’improvviso, si diffonde un virus. E sul piazzale davanti al centro di accoglienza tutti cominciano a trasformarsi in zombie, a rincorrere le persone per morderle.
Ci troviamo nella nostra realtà di tutti i giorni. Ma anche in un perfetto film horror. Un genere che, dai tempi di Romero, è stato spesso veicolo di messaggi politici. Il colpo di genio di Luna Gualano e dello sceneggiatore Emiliano Rubbi è stato quello di applicare lo zombie movie alla nostra realtà. L’orrore quotidiano diventa horror. E il virus dell’odio è cieco e senza ragione. E si propaga contagiando tutti.
«L’idea è venuta mentre ero in macchina con l’autore della sceneggiatura, Emiliano Rubbi, due anni fa, dopo una delle tante vicende di odio razziale», ci racconta Luna Gualano. «Lui ha fatto una considerazione: bisognerebbe farne un film di zombi. Questo odio cieco, questa rabbia ingiustificata ci sembrava paradossale all’epoca. Poi è andata degenerando ulteriormente. Da lì abbiamo sviluppato l’idea, che era parecchio forte, ed è nata la voglia di mettere su il film».
Nessuno in Italia, finora, aveva pensato di raccontare il problema delle migrazioni e dell’intolleranza con un film di genere, per di più un horror. «Questo parte da un’esigenza creativa mia, mi piace realizzare qualcosa che prescinde il reale, credo che, quando vuoi mandare un messaggio, se lo fai metaforicamente piuttosto che in maniera didascalica, puoi avere risultati migliori», spiega la regista. «La mia speranza è che qualche ragazzino, attratto da un film di zombie, si ritrovi a parteggiare per il liberiano che deve scappare dall’orda. E capisca che parlare una lingua diversa è semplicemente una caratteristica di una persona».
RIFUGIATO TRA I RIFUGIATI. Il messaggio sociale di Go Home A casa loro è potente, urgente. Ma il film non allenta mai la tensione, e non si dimentica mai di seguire le regole del genere. È raccontato almeno da due punti di vista. Uno è quello di Alì, il ragazzino che vediamo giocare a pallone, parlare con la madre. L’altro è quello di Enrico, un ragazzo di estrema destra, ignorante, razzista, un personaggio molto negativo. È lui che, per salvarsi dall’orda, è costretto a entrare nel centro d’accoglienza. Rifugiato tra i rifugiati, accolto da chi dovremmo accogliere noi.
È un ribaltamento del punto di vista potentissimo. «L’obiettivo era avvicinare un tipo di persone che potesse essere simile a lui: la nostra volontà era riuscire a trasmettere, sia in scrittura che in regia, tutte le tonalità di grigio della realtà», ci racconta Luna Gualano. «È sbagliato dire “il fascista è un cattivo”, magari sono scelte dovute all’ignoranza. La scelta è stata quella di costruire un personaggio realistico per buttarlo in una situazione completamente irreale nella vita, e riuscire a far risultare simpatico, o quasi, un esponente di certi movimenti che normalmente non lo sarebbe. A volte è indispensabile per dare un senso di reale che ti rende più credibile l’irreale. Non era nostra intenzione farne un eroe, ma neanche un completo antieroe».
Enrico mangia con i rifugiati, ci parla. In poche ore fa un percorso di convivenza, coesistenza, conoscenza, con un esito sorprendente nel finale. «Un po’ ha influito un mio pessimismo di base», ci confessa Luna. «Se avessi mostrato un lieto fine, il messaggio sarebbe stato più debole. A volte bisogna dare uno schiaffo per provocare un cambiamento. Abbiamo deciso di raccontare l’ipotesi peggiore possibile».
NON È CATTIVO. LO DISEGNANO COSÌ. «Enrico non è cattivo, ma un vigliacchello» riflette la regista. «L’obiettivo è quello di far vedere quali possono essere i risultati dell’essere così, intimamente egoisti, vigliacchi che se la prendono con i più deboli».
Enrico è un personaggio molto realistico, che potremmo incontrare nella vita di tutti i giorni. Eppure ha anche qualcosa di irreale, di stilizzato, è disegnato come un fumetto, caratteristica che ha anche qualche altro personaggio, potrebbe essere uscito da una striscia di Zerocalcare. Il mood del film va anche da quelle parti: non a caso il fumettista romano ha firmato la locandina del film. «Enrico è interpretato da un attore bravissimo, Antonio Bannò: ha una fisicità particolare e un grande talento», continua la regista. «Tanto è dovuto alle scelte fatte con l’autore della fotografia, il tutto ha un gusto fumettistico e irreale. Abbiamo deciso di dare un’impronta estetica forte al film, insieme a un modo di recitare realistico, ma giocato sul filo del rasoio con un gusto fumettistico, di mantenere un senso di reale ma in un mondo irreale».
TRA FILM E REALTÀ. Per girare il film è stato creato un centro di accoglienza immaginario, prendendo spunto dal Baobab, a Roma, e dalla sua situazione. «Abbiamo girato all’interno di due centri sociali, che sono diventati i coproduttori del film, l’Intifada e lo Strike», ci svela la regista. «Alcune camere sono più da centro di accoglienza vero e proprio, altri luoghi sono quasi surreali, abbiamo voluto giocare sul gusto un po’ urban che può avere un centro sociale con i suoi graffiti. Abbiamo visitato diversi centri di accoglienza: alcuni sono tenuti benissimo e altri paiono dei lager». Al film hanno partecipato molti veri richiedenti asilo, e in questo modo hanno portato il loro vissuto nel film. «Sono entrati nella mia vita e questo ha fatto sì che tutto il progetto fosse più reale, conoscevamo davvero ciò che stavamo andando a raccontare», racconta Luna Gualano.
«Dal punto di vista umano è qualcosa che ha avuto un valore immenso: conoscere il passato dei protagonisti del film, conoscere le torture che hanno subito in Libia, sapere dei loro problemi in Italia è stato qualcosa di unico. Alcuni hanno preso l’asilo, altri hanno avuto il secondo diniego, e sto cercando di capire come dare loro una mano, ma la situazione è drammatica».
ATTESE CHE DISTRUGGONO L’ANIMA. «Una cosa che è stata aggiunta alla cifra stilistica, a livello di regia, è il senso dell’attesa, dell’impotenza, di queste persone che vengono prese e buttate in un posto e lasciate ad attese infinite che distruggono l’anima», ci spiega la regista di Go Home A casa loro.
«Ci sono persone che cadono in stati depressivi. L’attesa ti logora: questi ragazzi rimangono sospesi e molti si abbandonano. Non è facile venirne fuori. Quando una persona subisce torture, rischia di morire in mare e poi viene buttata in un centro, con assistenza minima – per chi ce l’ha – mentre necessiterebbe di terapie e di processi di inserimento, il risultato è questo, di persone che non riescono più a lottare. La passività di alcuni, la loro impotenza che vediamo nel film, è venuta fuori dai loro racconti». «I progetti più virtuosi sono stati tutti fermati», continua. «Pare sia un peccato far vivere una vita a qualcuno invece che farlo marcire in un luogo chiuso. Mi sto riferendo a Riace e al fatto di limitare gli Sprar solo ai rifugiati politici. Sono sconcertata da quanto le cose siano peggiorate da che abbiamo avuto l’idea, messo su la produzione e girato il film ad adesso. Speravo quasi che il film diventasse obsoleto, mi sono detta “magari tra un anno questo problema è superato”. Mi fa piacere che abbia una risonanza sociale, ma, a vedere come è degenerata la realtà, avrei preferito aver girato un film obsoleto». Il film uscirà nei primi mesi del 2019, mentre intorno a noi il clima peggiora a vista d’occhio. «Uno dei ragazzi mi raccontato che quando aspetta l’autobus nessuno si siede vicino a lui» ricorda Luna. «Un altro fa il cameriere e mi ha detto che ci sono tante persone che si rifiutano di farsi servire da un africano. Sono cose che credevamo appartenessero a diversi decenni fa e invece, incredibilmente, sono tornate. Non pensavo potesse essere possibile».
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