I NOSTRI RAGAZZI SONO IPERCONNESSI? ECCO UN PROGETTO PER AIUTARLI
Le dipendenze da smartphone e da social media, raggiungono in adolescenza livelli allarmanti, ma si mostrano già nei più piccoli
04 Gennaio 2021
Se siete dei genitori, non potrete non aver notato nei vostri figli, già in tenerissima età, quell’attrazione quasi incantata per strumenti come il tablet e lo smartphone. E la loro facilità nell’usarlo. Questi nuovi mezzi, uniti poi ai luoghi virtuali a cui permettono di connettersi, cioè i social network, sono una risorsa importante, ma sono anche pericolosi. Per questo è stato varato il progetto Iperconnessi – Azioni di sensibilizzazione nei contesti scolastici sul tema della Dipendenza da Smartphone e Social media promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità solidale.
La prima fase si è appena conclusa, e il progetto continua. Il progetto Iperconnessi esplora le dipendenze da smartphone e da social media, le quali raggiungono in adolescenza livelli allarmanti, connotandosi nella forma di vere e proprie nuove patologie, ma si mostrano con preoccupante evidenza già ad età precedenti, nelle bambine e nei bambini frequentanti le scuole secondarie di primo grado e, addirittura, le scuole primarie.
Per i/le ragazzi/e, gli strumenti tecnologici hanno, da un lato, una funzione strumentale connessa alla ricerca di informazioni, allo studio, alle lezioni, al guardare video o ascoltare musica, ma ancora di più sembrano avere una funzione affettiva: nel corso degli incontri, infatti, è emersa la percezione che il tempo libero, spesso associato a stati di noia e isolamento, sia un contenitore vuoto che deve essere riempito. Allo stesso modo, appare pressante l’esigenza percepita di incrementare la rete di relazioni per appagare il bisogno di riconoscimento sociale. A seguito dell’emergenza coronavirus, i ragazzi riportano di aver intensificato di molto l’utilizzo di internet e tale aumento è ancora più rilevante in coloro che hanno percepito un elevato livello di stress, a causa dell’isolamento forzato e sperimentato più frequentemente stati affettivi negativi. Ne abbiamo parlato con Veronica Mammì, Assessora alla Persona, Scuola e Comunità solidale del Comune di Roma.
Da che riflessioni nasce il progetto “Iperconnessi”? Da che parti sono arrivati i segnali che il problema della dipendenza da smartphone e da social fosse da affrontare?
«Negli ultimi anni la proliferazione dei dispositivi mobili e la diffusione dei profili social, tra i ragazzi e spesso anche tra i bambini, hanno alimentato la preoccupazione di studiosi ed esperti circa i possibili effetti negativi dell’iperconnessione. Le molteplici funzionalità del cellulare lo rendono uno strumento quasi indispensabile e utilizzabile ovunque. I bambini e le bambine crescono in un contesto dove la presenza dello smartphone appare perfettamente naturale e, nel corso della loro crescita, evolve su piani diversificati anche il rapporto psico-emotivo con lo strumento. Le dipendenze dal telefono e dai social media raggiungono in adolescenza livelli allarmanti, ma le prime manifestazioni sono già nelle scuole secondarie di primo grado e, addirittura, nelle scuole primarie. È a partire da tali considerazioni e in un’ottica preventiva, che l’Assessorato alla Persona, Scuola e Comunità solidale e la Fondazione Roma Solidale, in collaborazione con l’Ordine degli Psicologi del Lazio e con il contributo di IDEGO – Psicologia Digitale, hanno posto le basi per un intervento sperimentale finalizzato a coinvolgere ragazze/i e bambine/i degli istituti scolastici primari – con particolare riferimento al 4° e al 5° anno – e secondari di I grado del territorio romano, mediante azioni di sensibilizzazione volte ad informare e formare ad un utilizzo corretto e consapevole dei nuovi strumenti di comunicazione e socializzazione».
Il momento particolare, la pandemia con il relativo lockdown e la dad, hanno rischiato di aggravare ulteriormente gli effetti collaterali dell’uso di smartphone e social media.
«La pandemia ha indubbiamente rappresentato una fase cruciale con un impatto rilevante sulle condotte dei ragazzi e delle ragazze, portando all’intensificazione dell’utilizzo dei dispositivi. Proprio per questo, con l’inizio dell’emergenza da COVID-19, si è evidenziata la necessità di rimodulare, ed in parte riformulare, obiettivi e azioni del progetto “Iperconnessi”, per renderlo capace di cogliere la complessità del momento e tradurlo in uno strumento utile “qui ed ora”, dunque perfettamente attuale. Abbiamo quindi riadattato il progetto ai tempi del Coronavirus, calando il tema nel contesto del lockdown e, successivamente, nella fase di convivenza con il virus che ancora stiamo vivendo. Con la riorganizzazione della didattica attraverso la dad abbiamo assistito a due fenomeni, che sarà interessante approfondire ulteriormente. Per alcuni alunni il lockdown ha portato ad un incremento dell’iperconnettività già presente, che ha supplito anche al contatto autentico/fisico con i propri amici e amiche. Per altri, invece, ha rappresentato l’irruzione delle nuove tecnologie in una quotidianità che fino allo scorso anno ne aveva fatto a meno. Dall’inizio della pandemia è emerso un aumento intensificato dell’utilizzo di internet da parte dei ragazzi, che è stato ancora più rilevante in coloro che hanno percepito un elevato stress a causa dell’isolamento forzato e sperimentato più frequentemente stati affettivi negativi. In ultima analisi, nella difficile fase che stiamo attraversando abbiamo vissuto tutti un tempo di iperconnessione, in cui sono stati coinvolti in modo improvviso anche i più piccoli. Grazie alla tecnologia abbiamo portato avanti lavoro, scuola, relazioni. È stato un aiuto prezioso, ma con dei rischi seri di dipendenza, specialmente per la fascia d’età cui è rivolto il progetto e che già prima era caratterizzata da un rapporto intenso con lo smartphone».
Cosa possiamo dire delle nuove patologie, dalla nomofobia e la ringxiety, fino al phubbing?
«Una recente indagine (OCSE-PISA 2015) ha rilevato come il 23,3% degli adolescenti italiani – uno dei valori più alti al mondo – dichiari di trascorrere più di 6 ore al giorno online e il 47% affermi addirittura di “sentirsi male in assenza di una connessione ad Internet”. Ed è chiaro come questi dati tendano a salire di anno in anno. A ciò si lega il rischio crescente di dipendenza e di nuove patologie. In questo senso iniziano a circolare neologismi per segnalare ansia e disturbi correlati all’iperconnessione. Il termine inglese nomophobia (nomofobia in italiano), nato dall’abbreviazione di “no-mobile-phone”, indica il terrore di rimanere sconnessi dalla rete mobile. Il termine ringxiety nasce invece dalla fusione di “ring” e “anxiety” ed indica il disturbo di cui soffre chi crede di avvertire, con grande frequenza, notifiche inesistenti provenienti dal proprio cellulare. Negli ultimi anni, si parla molto anche di phubbing (termine nato dalla crasi di phone e snubbing, ossia snobbare, ignorare, mediante lo smartphone), cioè l’atteggiamento sgarbato che indurrebbe a controllare continuamente lo smartphone alla ricerca di novità, isolandosi e trascurando la compagnia in carne ed ossa: basti pensare a certi scenari paradossali a cui ci stavamo abituando prima del lockdown, come ad esempio le tavolate di amici e familiari nelle quali ciascuno appare spesso assorbito nel rapporto con il proprio smartphone ed in definitiva isolato dal contesto relazionale e dal suo stesso vicino di sedia. In generale, questi neologismi rappresentano i primi tentativi di descrivere un fenomeno globale, ma hanno ancora bisogno di conferme e maggiore scientificità. Proprio per questo, per il progetto “Iperconnessi”, abbiamo pensato a una fase iniziale di esplorazione del fenomeno, in collaborazione con l’Ordine degli Psicologi del Lazio, al fine di comprendere meglio il campo di analisi».
Cosa si può dire della funzione affettiva che, accanto a quella strumentale, hanno questi strumenti tecnologici?
«Per i/le ragazzi/e, gli strumenti tecnologici hanno, da un lato, una funzione strumentale connessa alla ricerca di informazioni, allo studio, alle lezioni, al guardare video o ascoltare musica, ma ancora di più sembrano avere una funzione affettiva: nel corso degli incontri svoltisi a scuola, in questa fase grazie alla Didattica a Distanza, è infatti emersa la percezione che il tempo libero, spesso associato a stati di noia e isolamento, sia un contenitore vuoto da riempire. Allo stesso modo, appare pressante l’esigenza percepita di incrementare la rete di relazioni per appagare il bisogno di riconoscimento sociale. La maggior parte del tempo giornaliero speso nell’uso dei dispositivi risulta dunque associato al bisogno di far fronte alle emozioni negative, alla ricerca dell’approvazione degli altri ed al tentativo di migliorare le proprie interazioni sociali».
Siete stupiti che la fruizione di tecnologie e social media inizi così in tenera età?
«Mi sembra importante fare una premessa “di metodo”. Di fronte a un fenomeno ormai radicato nelle nostre società, agli adulti (che a differenza dei lori figli non sono “nativi digitali”) spetta il compito di porsi in posizione di ascolto nei confronti dei nuovi strumenti e linguaggi, ma anche la responsabilità di comprendere e gestire i rischi associati alle nuove condotte che regolano le vite sociali ed affettive dei bambini e dei ragazzi. Nella nostra epoca, la possibilità di essere connessi rappresenta ormai una risorsa imprescindibile per la formazione e il mantenimento della socialità, così come per la ricerca delle informazioni e l’organizzazione delle routine quotidiane. Si tratta di un dato di fatto che non possiamo ignorare: al contrario, abbiamo la responsabilità, come adulti e come amministratori, di comprendere lo scenario garantendo salute e sicurezza per gli adulti di domani».
Quali sono stati gli strumenti che avete messo in atto per informare e formare i giovani su questo problema?
«Con il progetto Iperconnessi abbiamo mirato fin dall’inizio a coinvolgere le Istituzioni scolastiche, gli studenti e le famiglie per provare a far emergere percezioni, vissuti e, nel caso, anche disagi legati ai cambiamenti portati dalla fase di emergenza e alla nuova esperienza della didattica a distanza. In questo primo arco progettuale, Iperconnessi si è impegnato in un’attività di esplorazione del fenomeno, una sorta di pre-test finalizzato a comprendere meglio il campo di analisi che ha coinvolto un gruppo di istituti scolastici primari e secondari di primo grado. Abbiamo coinvolto ragazzi e bambini mediante azioni di sensibilizzazione volte ad informare e formare ad un utilizzo corretto e consapevole dei nuovi strumenti di comunicazione e socializzazione. Inoltre, attraverso una campagna di comunicazione social lanciata sulla nostra pagina Facebook e su quella di Fondazione Roma Solidale, abbiamo ampliato il target di riferimento rivolgendoci ad un pubblico molto più ampio.
Nella seconda fase, dedicata alla “sensibilizzazione”, puntiamo a coinvolgere i gruppi-classe in attività di animazione ed auto-narrazione, condotte da esperti psicologi, insieme a momenti focus di approfondimento tematico e diffusione di informazioni. Il progetto mira a mostrare in modo diretto e coinvolgente gli effetti potenzialmente negativi legati al fenomeno ed al suo impatto sul benessere psicologico di ragazze/i e adulti, grazie al prezioso contributo di IDEGO – Psicologia Digitale, nostro partner di progetto, attraverso esperienze di Realtà Virtuale Immersiva, che consente al minore di vivere situazioni di iperconnessione e comprenderne i rischi, come in un videogioco psicoeducativo. In questo senso, la tecnologia può risultare molto utile proprio perché facilita nei ragazzi percezione, motivazione e apprendimento. L’esperienza virtuale costituirà uno strumento importante nell’ambito delle sperimentazioni che il progetto Iperconnessi ha in programma di attivare nei contesti scolastici non appena terminerà l’emergenza sanitaria in atto».
Qual è la campagna social che è stata messa in atto per informare i giovani?
«I dati e i vissuti emersi nel corso della prima fase di coinvolgimento delle scuole sono stati posti al centro di una campagna di comunicazione “social” condivisa dall’Assessorato e dalla Fondazione Roma Solidale. Obiettivo della campagna è stato diffondere a livello cittadino informazioni corrette e concretamente utili a beneficio dei giovani, delle famiglie, del corpo docenti, in merito alle nuove condotte e agli stili di vita emergenti, al fine di provare – da un lato – a comprendere meglio il fenomeno delle iperconnessioni nelle nuove generazioni, e – dall’altro – a promuovere un utilizzo maggiormente consapevole degli strumenti tecnologici. Ad esempio, i primi dati, estrapolati dal rapporto di ricerca realizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio, dal titolo “IPERCONNESSI – Percezioni, motivazioni e utilizzi dell’online”, mostrano che quattro ragazzi su cinque (nella fascia d’età 10 – 14 anni) utilizzano lo smartphone e due su tre ne hanno uno personale; il loro uso è molto diffuso sia tra amici che familiari e appare una pratica incoraggiata anche dalle famiglie; la quasi totalità dei ragazzi e delle ragazze ha possibilità di connettersi online e conosce i social media – tra i più utilizzati WhatsApp, YouTube, Google+ e Tik Tok -; un/a ragazzo/a su due dichiara di avere un “profilo personale” attivo; un intervistato su tre afferma di fare uso dei dispositivi anche dopo mezzanotte e durante i pasti almeno una volta al mese. In questa prima fase, la campagna non si è limitata a diffondere dati e testimonianze, ma ha puntato a coinvolgere ed attivare in un modo più diretto la cittadinanza ed in particolare la popolazione giovanile, grazie a piccole esperienze di Realtà Virtuale Immersiva, nella forma di “fotosfere” esplorabili a 360°, cioè di istantanee interattive tratte da scenari virtuali più ampi, come una cena al ristorante o uno studio medico durante una visita, o ancora un guidatore distratto dall’uso incauto del cellulare. Con la campagna di comunicazione vogliamo continuare a offrire un contributo utile ai ragazzi come agli educatori, per aiutare i giovanissimi a muoversi in un mondo di cui ormai fanno parte, senza perdercisi».
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