IL 58MO RAPPORTO CENSIS E GLI ITALIANI ANNUVOLATI DI FRONTE ALL’APOCALISSE
Ignoranti, sciatti, pieni di pregiudizi, invecchiati, incerti. Così fotografa gli italiani e l’Italia l’ultimo rapporto Censis. Ma le minute azioni capillari di una moltitudine di lillipuziani possono divenire Atlante. E tenere il mondo
di Claudio Tosi
20 Dicembre 2024
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Il 58° Rapporto Censis non ce la fa più a dire bene degli italiani, dello stato del paese, della radiosità del futuro. Cerca nei numeri e trova inciampi, cerca nei programmi di Governo e si imbatte in promesse non mantenute, scava nelle ideologie liberali e ne estrae carcasse non più servibili.
Ci siamo nutriti del mito del progresso, ci dicono Valerii e Giorgio De Rita, e negli ultimi 15 anni, visto che non arrivava, abbiamo camminato rasente i muri, atteso, galleggiato, ma ora è arrivato il momento di muoversi, di cambiare strada anche se non siamo più attratti da un ideale, piuttosto spinti da una necessità. La teleologia finalistica delle magnifiche sorti e progressive che ci offriva la crescita come obiettivo salvifico ha cambiato genere, non abbiamo più un fine, ma vediamo la fine.
Il Censis, come di consueto, usa un “noi” che vorrebbe comprendere l’intera società, ma si capisce che in realtà il ceto borghese che ne dovrebbe essere il fulcro è sempre più rosicchiato e sperso, mentre troppi elementi fuoriescono dallo schema, in cui proliferano sacche di povertà, fasce fragilizzate, giovani precarizzati e assume un ruolo strutturalmente (e incredibilmente) positivo il crescente sommerso da 200 miliardi e 3 milioni di addetti che, tra “nero” e “fuorilegge” contribuisce a mantenere a galla il sistema.
La cornice istituzionale della presentazione e il garbo misurato del racconto non riescono a rassicurare. Si ha piuttosto l’impressione che lo struzzo abbia da così tanto tempo il capo sotto la sabbia da non saperlo più tirare fuori. Se a tutto questo si aggiunge la farsa drammatica di una ricchezza che viene dall’accumularsi delle eredità su un sempre più limitato numero di eredi, si tocca con mano il sollievo mortifero della fine. La società non va avanti, ma ci riusciamo a galleggiare dentro, non protegge e non tutela, ma l’accumularsi dei lasciti salvaguarda i fortunati, esclude e dimentica, salvo affidarsi all’economia “irregolare”.
Siamo di fronte alla fine? Si ma l’apocalisse non è “del mondo”, ci ricorda Valerii chiamando in soccorso l’antropologo Ernesto De Martino, ma del “nostro” mondo.
Quanto vale il futuro?
E qui serve un cambio di scena, due tre giorni dopo la presentazione del rapporto Censis, al CSV Lazio le maggiori reti degli Enti di Servizio Civile Universale presentano la Campagna Quanto vale il futuro? in cui, contrastando la spinta competitiva che ancora oggi governa questo istituto, sposano i principi della scelta partecipativa e nonviolenta su cui il Servizio civile si fonda, per ribadire come sia necessario un investimento certo perché il Servizio civile si confermi l’occasione per dare a circa 60.000 giovani ogni anno la possibilità di vivere un’esperienza di emancipazione personale all’interno di una messa al servizio civica, sociale, culturale e professionale.
Gli enti della Cnesc, del CSVnet e del Forum (più tutti quelli che vorranno aderire alla campagna – fatelo qui!) insieme alla rappresentanza dei giovani Operatori volontari, hanno chiesto al Governo “Più servizio civile per investire nei giovani e nel bene comune”.
Un modo concreto per rispondere con un gesto di responsabile partecipazione alla domanda che De Martino ci pone: “Può finire il mondo?”, rispondendoci che già porsi la domanda è immettersi in una china disperante che non genera nuova linfa e chi lo fa, lo fa “sottraendosi all’unico compito che spetta all’uomo, cioè di essere Atlante, che col suo sforzo sostiene il mondo e sa di sostenerlo”.
Rigenerare l’umanità delle nostre comunità
E’ bella questa consapevolezza, pulisce il cielo dirsi che si, il mondo può finire, ma solo se cessiamo di dissodarlo, di prendercene cura, di riportarlo alle sue idealità di essere Mondo: luogo di accoglienza e tutela per tutti e ciascuno dei suoi abitanti, delle sue creature, dei suoi esseri. Il mondo di chi si chiude nelle certezze suprematiste, identitarie, nazionaliste è l’inferno che ci circonda, che esplode in guerre e si rinchiude in prigioni, così protervo nelle sue certezze da non riconoscersi neanche per l’abisso che è. Ma il mondo dell’accoglienza, del rispetto e della cura, quello che, come ci dice Calvino, si valorizza con il discernimento, rintracciandolo nel mezzo dell’inferno e ridandogli valore, facendogli spazio, quello possiamo insistere a farlo crescere, semplicemente, credendo nella nostra umanità.
E allora, come Atlante, affrontiamo pure la fatica di “tenere il mondo” rinnovando e rinforzando le strutture che permettono Più presente per i giovani, Più bene comune, Più coraggio di abbandonare le mediocrità di una società che per paura di non avere per sé si permette di negare agli altri il gesto dell’accoglienza.
Ma diversamente da Atlante questa è l’azione di una moltitudine di lillipuziani, di minute azioni capillari che agiscono localmente per rigenerare il senso di umanità delle nostre comunità. Per un sereno confronto con l’Apocalisse.