IL MEDIO ORIENTE SENZA CONFINI IN “NOTTURNO” DI GIANFRANCO ROSI
"Notturno" viaggia tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano senza mostrare la guerra, ma la vita che viene dopo. Tra silenzi, dolore e vita quotidiana
15 Settembre 2020
Dove non sono riusciti la politica, la diplomazia, i governi, è riuscito il cinema. “Notturno”, il nuovo film di Gianfranco Rosi, presentato in concorso alla 77a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e al cinema dal 9 settembre, ci regala un’immagine del Medio Oriente senza confini, unito da un’umanità che, nonostante appartenga a stati e fazioni diverse, vive sotto lo stesso cielo.
“Notturno” è stato girato, durante tre anni, tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. Ma, dopo averlo scritto all’inizio del film, Rosi ci racconta le storie delle persone che vivono in questi posti, senza specificare dove si trovino. Come se non fossero i confini a definirli, ma l’appartenere alla stessa umanità e allo stesso destino. «Per me era importante che non ci fossero divisioni geografiche, che fosse tutto un luogo mentale, dove tutte queste storie si potessero unire, in una dimensione quasi astratta e di trasformazione della realtà», racconta Gianfranco Rosi. «L’idea dei confini non appartiene a quelle regioni, i confini sono stati tracciati a tavolino nel 1916 dalle potenze coloniali senza considerare le etnie, le radici di quei popoli che vivevano liberi» spiega ancora. «E da lì nasce tutto il disastro, la storia che conosciamo. In tutto questo le vere vittime sono state la società civile: sono stati loro che hanno pagato il prezzo di tutte le scelte politiche sbagliate, della corruzione. Quando sono stato lì la sfida è stata quella di rompere questa divisione. Anche se il film è stato girato tra questi confini, volevo annullare le separazioni, gli stati e far sì che il film fosse portato avanti solo dalle storie dei personaggi».
La saggezza viene dai folli
“Notturno” passa da una storia all’altra, da un personaggio all’altro come in un flusso di coscienza, come in quei viaggi mentali che facciamo quando l’associazione di idee ci porta da una parte all’altra. «Bastava dare un’informazione in più a un personaggio, che poi non avresti voluto più staccarti da lui» spiega Rosi. «Nel montaggio la sfida è stata trovare il punto in cui lasciare la storia e agganciarne un’altra. È come una composizione musicale in cui una nota si lega alla successiva».
Il filo che unisce le storie è perfettamente logico. Vediamo dei plotoni di soldati marciare in addestramento, e poi delle madri curde piangere i loro figli nei luoghi dove sono stati torturati e uccisi. Un gruppo di soldatesse in attesa, al confine, come ne “Il deserto dei Tartari” di Buzzati, e poi il reparto psichiatrico di un ospedale in Iraq. Come a dire: la guerra e poi il dolore, la guerra e poi la pazzia. A proposito del manicomio, è proprio da lì che arriva il filo conduttore del film.
«In Medio Oriente c’è un detto: la saggezza viene dai folli» spiega Rosi. «Il manicomio era una delle storie che uno dei miei produttori locali in Iraq mi aveva detto di raccontare, ci sono andato tante volte, ma non avevo mai trovato una storia. Mi hanno dato il permesso di girare, ma non di filmare i pazienti. L’ultimo giorno in cui sono andato lì, sapendo che avrei abbandonato questa storia, ho scoperto che c’era un teatro: sento delle voci, gente che ride, mi siedo lì per dieci minuti. Ed è meraviglioso quello che vedo. Il medico mi dice: “è la terapia che facciamo coi pazienti che stanno meglio”. Il testo racconta la storia di tutto il Medio Oriente, “our land”, la loro terra senza confini. E poi ho chiesto il permesso di riprendere queste prove. Senza capire nulla. Un giorno va via la luce e mi hanno detto: “puoi filmare, tanto non si vede niente”, e sono andato in corridoio mentre facevamo la memorizzazione delle battute. E ho capito che questo poteva diventare il fil rouge del film. A tutto quello che non riuscivo a raccontare con voice over e interviste – che io non uso – ci ha pensato il teatro. È stato l’ancora sul passato, sul presente, sulle invasioni, sulla corruzione, sull’ISIS».
I bambini e l’ISIS
Ma queste sono solo alcune delle tante immagini che compongono l’affresco di “Notturno”. Seguiamo un cacciatore addentrarsi di notte con la canoa in una palude in cerca di anatre, e un imam che, dopo aver fumato il narghilè con la sua ragazza, gira per la città intonando la sua preghiera, accompagnato da un tamburo. Un ragazzo, Alì, che fa vari lavori per aiutare i suoi fratellini. Ci sono i convogli americani che scortano i tir all’ingresso dei campi profughi battuti dal vento e immersi nel fango. C’è un momento – il più sconvolgente del film – in cui siamo in un’aula insieme a dei bambini e ai loro maestri, che in quel momento sono anche degli psicologi. Vediamo i loro disegni, pieni di fuoco, sangue, arti mozzati e figure nere dal volto coperto: sono i carnefici dell’ISIS. E ascoltiamo le loro descrizioni dettagliate, i loro racconti fatti balbettando, o tirati fuori a fatica mentre tengono il capo chino sul banco. «Quando i bambini piangevano li picchiavano con dei bastoni». «Li ho visti torturare i bambini, bruciare le piante dei piedi». «Ci hanno picchiato con i cavi elettrici». Questo momento è terribile, durissimo, ma anche dolce. Perché da un lato è impossibile immaginare delle cose simili. Ma dall’altro questi bambini ora sono al sicuro.
Lo sguardo di Alì
Gianfranco Rosi racconta tutto questo non cercando mai la scena ad effetto, il momento tragico, quello da reportage di cronaca. Nel suo racconto cerca invece la quotidianità, la normalità, la vita di tutti i giorni che sta dopo la tragedia, dietro la tragedia, le guerre, le dittature.
Notturno è un film che si addentra nelle zone di guerra dove non si vedono spari, esplosioni, morti. Ci sono invece le persone, i paesaggi, lo scorrere della vita. È un film dominato dal silenzio, dopo che di fragore ce n’è stato anche troppo. «Una delle persone che ho amato di più è Alì», svela. «Non è muto, ma nella vita non parla. Ogni suo sguardo raccontava cose immense, ogni suo primo piano è un dialogo immenso. Con lui avrei girato per un anno intero. Era complesso e intrigante lavorare con una persona che non diceva mai una parola. Il primo piano di Alì alla fine del film sottolinea questa sensazione che avevo. Ho capito il film quando sono tornato, a febbraio, e anche l’Occidente viveva il momento in cui il futuro è sospeso. In quel mondo lì il futuro è sospeso da anni. E Alì, in quello sguardo, in cui ha un brivido di freddo, dà la sensazione di un futuro sospeso. Che ne sarà di lui?»
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