IL RAZZISMO NON È UNA FAVOLA. PAROLA DI MAURIZIO ALFANO
Con una metafora culinaria de “I promessi sposi”, l'autore di "Italiani razzisti perbene" torna a parlare di integrazione. Preziosa e inevitabile
20 Settembre 2017
Renzo è un pomodoro rosso, e Lucia è una spiga di grano. Si conoscono, vorrebbero amarsi, ma Don Intrigo, del Casato della Cipolla bianca, li avversa. Siamo in Calabria, e lui vuole privilegiare gli alimenti autoctoni, chiudendo il territorio a quelli che vengono da altre terre. Maurizio Alfano, dopo il suo illuminante Italiani razzisti perbene (Aracne Editrice 2015), nel suo nuovo libro, Il razzismo non è una favola – Questo piatto non s’ha da fare (Apollo Edizioni) riprende il canovaccio de “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni per costruire un racconto ricco e caleidoscopico (narrato in rima) e spiegare, attraverso la storia degli alimenti, che l’integrazione è possibile, preziosa, inevitabile. Anche a costo di sacrifici: un lieto fine c’è, ma c’è anche la morte di Lucia. Perché la realtà ci racconta questo.
Maurizio Alfano collabora con l’Unar della Calabria, e con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, con la Rete regionale Antidiscriminazioni in Calabria. Da anni tiene con bambini e ragazzi i laboratori “A scuola di razzismo”.
Per lavoro e come volontario ha dedicato la sua vita a combattere i luoghi comuni, a informare nel modo corretto, a formare le coscienze in fatto di discriminazioni.
Come mai la scelta di scrivere una favola?
La scelta è provocatoria: nella retorica ricorrente e nella maggioranza dei media e delle informazioni prevalenti gli episodi legati al razzismo e ai flussi migratori sembrano essere raccontati quasi come se fossero una favola. Si dice: non credete che le persone stanno male, che si spostano per fame o per la guerra. Il ricorso alla fiaba è un’ulteriore provocazione per dire che il razzismo non è una favola, ma una cosa concreta. Attraverso il linguaggio della favola voglio continuare in maniera diversa a denunciare che ci sono dei problemi. In questo libro metto in evidenza la nuova categoria dei profughi, in particolare dei profughi ambientali, quelli che si spostano per i cambiamenti climatici.
Quella degli alimenti è una metafora efficace. Quali sono le riflessioni che l’hanno portata a questa scelta?
Ho cercato di capire quali elementi, già prima della specie umana, e insieme alla specie umana, si fossero contaminati dando, nel corso dei secoli, ottimi risultati. Quegli alimenti che, amalgamandosi tra loro, danno vita ai piatti che consumiamo quotidianamente. La provocazione ulteriore è questa: i cibi che manipoliamo e mescoliamo tra loro per dare maggior sapore vengono da angoli e posti del mondo che neppure conosciamo. Non sappiamo che il pomodoro viene dal Perù e gli spaghetti dalla Cina: oggi sono diventati il piatto nazionale, e noi lo sdoganiamo come nostro. Così uomini e donne che vengono da posti diversi qui possono coesistere e dare al sistema Italia una valenza in più, un modo di vivere migliore, mentre oggi sembriamo voler mettere le parti una contro l’altra.
Se la storia dell’integrazione delle etnie dovesse seguire quella della contaminazione dei cibi, si potrebbe pensare che alla fine l’integrazione sia un processo inevitabile…
Viviamo in una società che si è già trasformata: la nostra ostinazione è che non vogliamo prenderne atto. Il sistema Italia non si regge più sui principi euclidei della continuità – territoriale – e dell’omogeneità – delle persone -. Oggi, con la globalizzazione, l’omogeneità è sostituita dall’eterogeneità e la continuità dai flussi migratori. Il nostro è un mondo già trasformato di fatto.
Se non prendiamo atto di questo, ci sfugge il lato migliore dell’integrazione: la possibilità di avere maggiori spazi e conoscenze. Il sistema Italia si regge sull’indice demografico che apportano i migranti e sull’indice economico, che è l’8% del Pil. Senza queste variabili saremmo uno dei paesi più vecchi al mondo e saremmo in crisi. In realtà ci sono motivi che mettono in contrapposizione le fasce deboli, gli stranieri e gli autoctoni: nessuno crea un problema istituzionale a un Pogba, o a un altro calciatore famoso, accade per uno straniero che è povero.
Il libro ha un lieto fine, ma c’è il sacrificio di Lucia. Perché ha voluto inserirlo?
Il racconto parte con il “c’era una volta” e lascia presagire un lieto fine. Ma così non è nella realtà di tutti i giorni: questo sacrificio è un tributo che vuole ricordare tutte le centinaia di migliaia che non ce la fanno ad arrivare nel nostro mondo, chi viene trattenuto nei centri di detenzione in Libia, chi muore nel Mediterraneo. Lucia, nel momento in cui muore, è quella parte di umanità che abbiamo perso, che sta morendo giorno per giorno lasciando spazio a una visione economica e non umana delle relazioni.
Alla fine del libro c’è un altro breve scritto, ispirato alla Siria e al bambino Aylan. Come è nato?
La dedica iniziale del libro e la parte finale hanno un filo conduttore. Ho dedicato il libro a una bambina bulgara, Vasia, che è cresciuta nel mio paese e a undici anni è tornata, sposa bambina, in Bulgaria. Alla fine del libro c’è la tragica scomparsa di Aylan. In ogni parte del mondo ancora oggi vengono consumate una serie di discriminazioni, su base razziale e di classe sociale, ai danni dei bambini. È un cortocircuito che un bambino come Aylan possa morire e rimanere nella nostra coscienza più o meno come la durata di uno spot. Aylan impersona la nostra mancata attenzione alla parte più debole, a cui non dedichiamo la cura necessaria.
A proposito di bambini, da anni tiene nelle scuole il laboratorio “A scuola di razzismo”. Che idee trova nei bambini, e quali sono le reazioni ai suoi spunti?
Parto con le quarte e le quinte classi del ciclo primario. Qui incontriamo bambini che sono neutri, al netto delle informazioni quotidiane, hanno un sentimento puro che rimane sorpreso negativamente davanti agli esempi che mostro con immagini pensate per la loro età. Cominciano a comprendere che li aspetta un mondo diverso. In loro trovo una grande umanità e una grande meraviglia – e indignazione – per il fatto che si possa essere discriminati in base alla pelle, al luogo in cui si nasce.
Più la fascia di età sale, più questo grado di indignazione si perde, fino a scomparire del tutto. Intervengono i luoghi comuni, quelli dei social network e delle fake news. Trovo una costruzione sistematica di pregiudizi sempre più difficili da scrostare. Ci sono anche ragazzi con una loro posizione in fatto di integrazione e tolleranza, ma sono residuali: quella che prevale è la costruzione di un immaginario fantascientifico su flussi migratori e mutamenti climatici, secondo il quale la causa di ogni male trae origine dagli stranieri. Non hanno la competenza per argomentare: si fermano a frasi da spot, a frasi shock. E da qui si capisce come il razzismo sia conseguenza e sintomo di una grande ignoranza. Quando dico che anche noi italiani siamo stati oggetto di migrazioni si trincerano davanti al fatto che oramai sono passati quarant’anni, noi non siamo più quegli italiani, oggi siamo diversi.
Come entrano nel libro il suo impegno quotidiano, il suo lavoro, le situazioni che vive?
Nel lavoro quotidiano che faccio, che in parte è lavoro, in parte impegno civile e volontariato, mi rendo conto che quando mi trovo ad argomentare in maniera puntuale con le persone li metto in difficoltà nel rispondermi. E capisco che si possono trincerare solo dietro una visione ideologica. E nel mio lavoro quotidiano mi sono reso conto di quanto le forme di razzismo siano talmente evolute che si diventa razzisti a prescindere: è questo che mi ha messo paura, l’involuzione del nostro essere società italiana.
In alcune presentazioni sto utilizzando le letture di persone che sono nate qui, che non conoscono i paesi dei loro genitori, che in italiano hanno dieci in pagella, e a cui viene negata la cittadinanza. Utilizzo esempi concreti per mettere le persone in imbarazzo.
Se si respira una voglia di cambiamento il motore sono spesso le persone, i volontari. Lei è uno di questi, e ne incontra spesso…
Se non ci fosse il mondo del volontariato, anche quello informale, avremo già raggiunto il cortocircuito. Un grande freno all’intolleranza lo danno il terzo settore, il volontariato, le reti informali, tutte le associazioni che lavorano intorno ai migranti e ai centri di accoglienza. Con tutta una serie di attività che altro non fanno se non mettere in piedi una cerniera sociale. Non è soltanto carità cristiana, che è un fatto superato.
Si lavora all’integrazione scolastica, sportiva, istituzionalizzando la presenza dei migranti che non sono solo chiusi nei centri, ma vengono portati nelle case. Se non ci fosse un lavoro di mediazione culturale del volontariato, la presenza degli stranieri sarebbe sempre più radicalizzata da forze politiche. È un lavoro certosino, incommensurabile. Molti volontari ogni giorno ci mettono la faccia, dicendo: per questa persona garantisco io.
Maurizio Alfano
Il razzismo non è una favola – Questo piatto non s’ha da fare
Apollo Edizioni 2017
114 pagine, 8.50 €