
IL SEME DEL FICO SACRO. MOHAMMAD RASOULOF: IRAN, IL REGIME SPROFONDERÀ
Mohammad Rasoulof, regista iraniano, è stato rinchiuso più volte dal regime, anche nella prigione di Cecilia Sala. Il suo film, Il seme del fico sacro, ci racconta la mancanza di libertà in ogni gesto quotidiano
21 Febbraio 2025
6 MINUTI di lettura
ASCOLTA L'ARTICOLO
Mohammad Rasoulof è stato detenuto nella prigione di Evin, a Teheran, in Iran, la stessa prigione dove è stata rinchiusa Cecilia Sala. È stato rinchiuso lì per due volte, a causa dei film che aveva girato. Oggi Rasoulof, come moltissimi artisti, è in esilio per non dover rispondere dei crimini di cui lo accusa la Repubblica Islamica. Fuori dal suo Paese sta girando il mondo per raccontare che cosa sta accadendo in Iran, che cos’è il movimento Donna, vita, libertà e come il regime abbia agito per reprimerlo, nel suo film Il seme del fico sacro. Il film è in corsa per l’Oscar come miglior film straniero, candidato dalla Germania. È una storia in cui vediamo, grazie ai video girati con gli smartphone, le vere immagini della rivolta e delle violente repressioni.
Iran: tante storie ancora da raccontare
Anche da lontano, è fondamentale continuare a raccontare. «Gli ultimi 46 anni della storia iraniana, dall’avvento della Repubblica Islamica, sono pieni di eventi che non sono stati ancora raccontati» ci ha raccontato Mohammad Rasoulof a Roma. «Durante le prime decadi sono state giustiziate migliaia di persone e finora nessun regista iraniano è riuscito a farne neanche un film. C’è un passato pieno di storie affascinanti da raccontare. Circa cinque anni fa, quando non potevo ancora lasciare il paese – non avevo il passaporto – e mi sembrava impossibile poter filmare per strada, ho iniziato a pensare di realizzare un film basato su archivi, usando l’animazione. Ci sono varie generazioni di artisti iraniani in esilio. Questo mi dà speranza sul fatto che, in questo mondo connesso grazie ai social, sia possibile raccontare storie che hanno un legame con il vissuto della gente di oggi in Iran ma che siano interessanti per un pubblico globale».

Accusati di diffondere la corruzione sulla Terra
Essere un artista in Iran vuol dire fuggire dal proprio Paese e raccontarlo dall’esterno. O rimanere, rischiando il carcere o la morte. Così tutti gli attori e la troupe de Il seme del fico sacro oggi non si trovano in Iran. Tutti, tranne una. «Tra i miei collaboratori l’unica persona che è ancora in Iran è Soheila Golestani, l’attrice che nel film interpreta la madre» ci ha raccontato Rasoulof. «Tutti gli altri sono riusciti a lasciare il Paese, alcuni clandestinamente, altri no. C’è un processo in corso nei confronti di tutti coloro che hanno preso parte al film: alcuni di noi verranno giudicati in contumacia. Siamo accusati di propaganda contro il regime, attentati contro la sicurezza pubblica e diffusione della prostituzione e della corruzione sulla Terra. Soheila Golestani ha dovuto passare un periodo in prigione durante i primi mesi della rivolta Donna Vita Libertà perché aveva diffuso un video sui social che era diventato virale». L’attrice non potrà far parte della giuria del Festival di Rotterdam perché le è stato proibito di lasciare il Paese.
La prigione di Cecilia Sala
Quella prigione di Evin in cui è stata rinchiusa Cecilia Sala, Mohammad Rasoulof la conosce bene. «Vorrei ringraziare Cecilia Sala per aver preso il rischio di andare in Iran per vedere da vicino le esperienze delle donne iraniane in questo periodo» ci tiene a dire il regista. «Io ho passato due periodi nella stessa prigione per cui posso immaginare che esperienza difficile sia stata per lei. Credo sia ancora più difficile per una persona europea. Io sono nato in Iran, sono cresciuto e vissuto qui e sono preparato a queste difficoltà con cui dobbiamo combattere tutti i giorni». È proprio vivere tutti i giorni in una totale assenza di libertà quello che nessuno di noi riesce a immaginare.
Il seme del fico sacro: in Iran la vita stessa è prigione
È qualcosa che Il seme del fico sacro riesce ad evocare. Non si vedono carceri, perché è la vita stessa che è una prigione. Si vive nella paranoia, con l’aria che viene a mancare a causa di un regime per cui ogni piccolo gesto diventa qualcosa di cui aver paura. Iman, diventato un giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria, si trova ad istruire i casi in pochi minuti e a firmare condanne a morte. Ma le figlie, spiriti più liberi, si rendono conto di quello che fa il padre. Grazie al contatto con una compagna di studi capiscono cosa accade là fuori. Grazie ai social media vedono con i loro occhi le violenze.

La forza cruda della verità
È quello che accade davvero in Iran. E questo ha permesso di inserire in una storia privata le vere immagini delle rivolte e le repressioni. «Il giornalismo in Iran è un mestiere difficile e non è permesso ai giornalisti documentare le proteste» ci ha spiegato il regista. «Gli stessi manifestanti, con i loro dispositivi personali, riprendono le proteste e diventano citizen journalist: condividono tra loro questi documenti via social e li mandano anche all’estero per tenere informata la popolazione mondiale su cosa sta succedendo in Iran». «Io ero in prigione da vari mesi, per i miei film precedenti, quando è partito il movimento Donna, vita, libertà» continua. «E seguire quello che stava succedendo dal carcere era impossibile. Quando sono uscito sono andato a andare a vedere tutti i video. Sapevo che avrei fatto un film clandestinamente e mi chiedevo come poter ricreare le scene di protesta. Mi pareva importante riconoscere il ruolo dei social nel rendere più forti e coesi attivisti e attiviste e dare loro coraggio e voglia di scendere in piazza. Mi sono chiesto: in un mondo ideale, anche potendo ricreare certe scene, riusciresti mai a ottenere la stessa forza cruda della verità?».
Il regime si seppellirà da solo
Nelle scene di finzione, girate in casa, il regista ha scelto di evocare il senso di prigionia insito nella stessa famiglia. Che porta a una reazione violenta. «Non credo che la liberazione passi per la violenza» ci tiene però a precisare il regista. «La caratteristica più importante della lotta delle donne in Iran è il fatto che rigetti qualsiasi forma di violenza. Se nel finale del film c’è una violenza, è generata dal regime stesso. È il regime che si auto-seppellisce in una tomba che si è creato. È quello che accadrà». C’è un fatto accaduto in Iran che sembra dirci questo. «Due dei più infami giudici iraniani, che hanno condannato tantissima gente a morte, sono stati uccisi dalla persona che portava loro l’acqua, un ufficiale di basso rango che ha preso la pistola della loro guardia» ci racconta Rasoulof. «Questo vuol dire che chi semina vento raccoglie tempesta».
