IL VOLONTARIO DI PROTEZIONE CIVILE NON DISCUTE, SI MUOVE
Agnese Rossi, volontaria di Protezione civile, risponde a chi ha definito “garzone” il Terzo Settore nell’emergenza. Perché è abituata a fare. Per discutere ci sarà tempo
14 Aprile 2020
Tutto è nato da un articolo di Vita, firmato da Riccardo Bonacina, in cui si diceva che, in questa emergenza Covid 19, il Terzo Settore sarebbe stato trattato dalle istituzioni «alla stregua di un garzone». Non sarebbe cioè stato interpellato per decidere insieme a istituzioni ed imprese, ma chiamato in causa solo come erogatore di servizi. È un’opinione che si può condividere o meno. C’è anche però un Terzo Settore a cui la definizione di «garzone» non pesa, anzi. Non pesa perché non la intende in senso negativo. Una di queste è Agnese Rossi, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere grazie ai social media, e a un commento sull’articolo in questione.
«Da lavoratrice nel Terzo settore, ora in sospeso come molti, e da volontaria di protezione civile, da quasi 17 anni, dico che sono parole al vento, ora. Proprio da volontaria sono abituata a fare poche chiacchiere, testa china e si parte». È così che ha iniziato il suo commento Agnese Rossi, un lavoro in una casa di accoglienza per persone in difficoltà (soprattutto ragazzi dai 18 ai 35 anni, migranti e rifugiati, ma anche italiani) e attiva nel volontariato di Protezione civile da 17 anni. Agnese fa parte del gruppo ANC Roma 1 (Associazione Nazionale Carabinieri) ed è uno dei gestori delle emergenze: si occupa di ricevere le richiese delle istituzioni e formare un servizio.
Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org
Il volontario di protezione civile fa
Così abbiamo contattato Agnese e le abbiamo chiesto di parlarne un po’ con noi, per capire il suo punto di vista, che poi è quello di molti. Nel suo commento dice che se arriva una chiamata parte, anche solo per portare uno scatolone. E delle medaglie ne fa a meno. Insomma, se serve essere garzoni lo si fa, ed è qualcosa da fare con orgoglio. «In questo momento di emergenza un volontario di protezione civile non discute, si muove», spiega Agnese Rossi. «Con tutti i limiti di un’emergenza come questa, che nessuno conosce. Anche se negli anni abbiamo fatto esercitazioni – ci esercitiamo costantemente per l’allerta meteo, i terremoti, gli incendi – questa è una novità. E si fa quello che ci si chiede di fare. È vero che in un’emergenza c’è la previsione, la prevenzione, la fase di emergenza e poi il ripristino della normalità. Ma in questo momento siamo passati direttamente all’emergenza senza pensare a cosa si fa e come si fa».
Per discutere e prendere decisioni ci sarà tempo. «È auspicabile far parte di un sistema operativo, essere presenti», ragiona Agnese Rossi. «Ma è anche vero che ci sono i coordinamenti delle associazioni di volontariato della Protezione civile, e questi sono chiamati non solo a operare, ma anche a organizzare. E poi a cascata c’è un numero alto volontari che fanno tante cose. Come il gruppo che ha in gestione il magazzino degli aiuti e dei presìdi medici e si occupa dello smistamento, e lavora giorno notte. Il volontario di protezione civile, di fatto, è un operaio». E la cosa può essere detta anche con orgoglio. «Siamo operai, in questa fase», commenta Agnese Rossi. «E a testa china. Il volontario di protezione civile è abituato ad essere attivato anche 5 minuti prima, per andare a prendere a Fiumicino dei materiali da un cargo che veniva dalla Cina, a fare la manovalanza, a far scendere questi scatoloni per tre ore».
Anche noi nell’emergenza
Questo è quello che serviva in questo momento, questo è quello che andava fatto. E c’è comunque una grande soddisfazione nel rendersi utili anche in questo modo. «È un pezzo di una catena, che si chiama logistica» ragione Agnese Rossi. «Su questo la forma mentale ce l’abbiamo. Quella di fare quello che ci è chiesto di fare senza giudicare. Poi, a bocce ferme, si vedrà cosa di può fare e migliorare. I volontari di protezione civile che sento, e conosco vari gruppi regionali, non hanno fatto una lamentela sulle cose che ci fanno fare».
«Siamo anche noi dentro il sistema», continua, «siamo occupati, abbiamo una famiglia. Ci è stato insegnato di operare in sicurezza, se no diventiamo anche noi parte del problema. I presidi sono importanti: ma non ci chiedono di fare cose rischiose. È vero che non ci hanno dato le mascherine. Ma non siamo a contatto con zone rischiose, siamo consapevoli che la priorità ce l’ha chi veramente è in trincea. Non battiamo i piedi, siamo anche noi dentro l’emergenza. La grande cosa che facciamo è consegnare, siamo un raccordo: quando arrivano, i materiali, con i nostri mezzi – siamo tanti e snelli – ci occupiamo di farli arrivare agli ospedali. Ci siamo procurati da soli le mascherine, certo, ma non è il momento di dire “mi sento o non mi sento di fare questo, sono mal sfruttato, sono usato”. Io lo vedo da come scalpitano i nostri volontari, ai quali sembra anche troppo poco quello che ci chiedono».
L’istinto e la paura
Di emergenze Agnese e il suo gruppo ne hanno fatte molte, alcune con un protocollo pianificabile, come un terremoto. Le fasi di prevenzione, previsione, gestione della emergenza e ritorno alla normalità fanno parte di un processo già codificato. Qui si è andati diretti alla fase emergenziale. E qui l’essere comunità ha prevalso su tutto. Ma quali sono state le prime riflessioni, anche a livello umano, che lei e il suo gruppo, hanno fatto in questa situazione? «Non c’è stato modo di vedersi in sede, abbiamo dovuto fermare tutto, ogni riunione ogni formazione», spiega Agnese. «Dal punto di vista emotivo è stata una cosa nuova, non siamo partiti da soli, ognuno con le proprie competenze personali. Siamo rimasti in attesa. Quando c’è un’emergenza conosciuta, si attivano all’interno nostro una serie di procedure conosciute. Qui siamo rimasti in attesa di istruzioni con la nostra personale, umana paura. E questo è umano. Ma, a fronte di una richiesta di aiuto rimane l’istinto tipico del volontario di andare in soccorso: c’è stata da subito un’altissima adesione. C’è un forte senso della collettività».
Ma a differenza di altre emergenze, qui c’è la paura per un pericolo che non si vede. A differenza di un terremoto, o di un’alluvione qui c’è qualcosa di invisibile, che per questo spaventa di più. «C’è una paura diversa», conferma Agnese Rossi. «Nelle classiche emergenze hai a che fare con delle cose. Sai che, durante un terremoto, non ti devi avvicinare a un palazzo, perché potrebbe crollare. Sai che quando c’è l’acqua alta devi stare attento quando vedi un tombino senza copertura. Qui c’è la paura di uscire anche per un servizio. Si tratta di stare ancora più accorti, e ti capita anche quando esci per fare la spesa. C’è la paura per qualcosa che non si vede, il vettore potrebbe essere la persona che mi attraversa il marciapiede appena esci di casa».
Sì, siamo garzoni
Nel gruppo ANC Roma 1, come in tutti i gruppi che conosco, si sta lavorando senza sosta dall’inizio, giorno e notte, si parte anche all’alba per andare a prendere diecimila mascherine a Milano e tornare in giornata, con i mezzi propri che si fa prima, poi per il rimborso si vedrà. Ma com’è la giornata di un volontario? «Parlo con l’esperienza di gestore», risponde Agnese Rossi. «All’interno del gruppo abbiamo un prospetto: per ogni giorno almeno due volontari per le esigenze delle Regioni. Il volontario dà la disponibilità per il giorno successivo, non sapendo a che ora dovrà intervenire. La sera ci arrivano delle mail dal coordinamento regionale, con la quantità dei colli da consegnare ai vari ospedali, e gli orari in cui ritirarla dai magazzini». «L’orario varia perché variano i tempi di arrivo», continua. «A volte la mail arriva anche a mezzanotte. E il volontario è pronto, a qualsiasi ora, ad essere attivato. Non c’è mai stato un volontario che abbia disdetto il servizio».
L’importanza del riconoscimento
Un impegno di questo tipo, per fortuna, viene anche riconosciuto. «Una cosa che mi ha stupito è che siamo spesso nominati e ricordati», confida Agnese. «Banalmente vado a fare la spesa e mi dicono che i volontari di protezione civile possono passare avanti. C’è una ditta che produce lenti a contatto, e siccome le lenti sono un veicolo per questo virus, riforniscono due mesi di lenti a contatto ai volontari di Protezione civile. Dopo i medici e gli infermieri è importante il sentirsi parte di questo sistema, anche consegnando i presìdi».
Per un volontario questi segnali di gratitudine sono importanti. «Ci dà il senso di quello che per anni abbiamo fatto, un addestramento soprattutto di testa», riflette Agnese Rossi. «Quando alle selezioni i volontari mi chiedono cosa devono avere, “due mani, due braccia e la testa, con la lucidità puoi affrontare qualsiasi cosa”, rispondo».
Leggi anche le informazioni utili e gli aggiornamenti dalle associazioni che si mobilitano per l’emergenza sanitaria di COVID 19 sul portale del CSV.
Una risposta a “IL VOLONTARIO DI PROTEZIONE CIVILE NON DISCUTE, SI MUOVE”
Brava Agnese
ora più che mai mi sento orgoglioso di essere un volontario della Protezione Civile e aiutare gli altri mi fa star bene,. Non voglio nulla in cambio perchè quel grazie o quel sorriso da parte delle persone che aiutiamo è Tanto perchè è sincero lo vedi nei loro occhi. Tanto più far parte del ANC Roma 1 un gruppo speciale che solo chi ne fa parte può capire.