INFORMAZIONE E CONFLITTO: QUANDO LE PAROLE ALZANO MURI
Notizie false o distorte, hate speach: l'informazione può fomentare paura e discriminazione oppure costruire mediazione e dialogo
10 Aprile 2017
Non tutta la comunicazione è orientata alla crescita della società, non tutto il giornalismo è servizio al pubblico. La comunicazione può anche creare e alimentare i conflitti. Sul tema informazione e conflitto si è discusso, sabato 8 aprile, presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, in un corso di formazione per giornalisti.
«La società in cui viviamo sembra stia diventando sempre più cattiva e a tutto questo corrisponde un imbarbarimento della comunicazione», ha affermato con rammarico Mario Morcellini, presidente della Conferenza nazionale di Scienze della Comunicazione e commissario Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
Questi media, invece di costruire ponti, alzano i muri, creando divisioni. Si tratta di una shock communication, come l’ha definita Morcellini, che porta alla cosiddetta “fabbrica della paura”, ossia la costruzione mediale di un sentimento diffuso di timore e insicurezza nelle persone, generatore di instabilità e violenza. Il caso del fenomeno immigrazione – studiato da numerose ricerche dell’Università La Sapienza di Roma – sembra emblematico. Le persone sanno quanti immigrati vivono nel loro Paese?
Informazione e conflitto: siamo sulla strada sbagliata
La ricerca IpsosMori del 2014 è partita da questa domanda, dandoci una risposta abbastanza sconvolgente per quanto ci riguarda: gli italiani pensavano che gli stranieri fossero il 30% della popolazione, mentre la percentuale si fermava al 7%. Oggi sono poco più di 5 milioni, quindi l’8,3%, ma la percezione non è diminuita. Chi li ha messi tutti questi migranti negli occhi degli italiani? Come in un fotomontaggio, sono stati aggiunti in post-produzione, anche se nella realtà non esistono.
Dagli anni ‘90 in poi in Italia i media hanno rappresentato le migrazioni soprattutto come un’emergenza, coniugando il trinomio immigrazione-mancanza di sicurezza-criminalità. La rappresentazione mediale dello spazio sotto assedio ha posto il fenomeno nell’ottica del problema da risolvere e come tutta risposta sono aumentati movimenti xenofobi e populisti.
Toni cupi, emergenza, paura, dolore: sono queste le caratteristiche del binomio informazione e conflitto, che oggi sembra sempre più diffusa. Insomma, siamo sulla strada sbagliata.
La comunicazione può così alimentarli i conflitti (che non sono solo le guerre), fomentando l’odio e le discriminazioni; oppure può aiutare ad attenuarli, offrendo ai cittadini e a chi li governa la possibilità di fondare mediazioni e dialogo. Jake Lynch, parlando del giornalismo di pace in alternativa a quello conflittuale, ha parlato nei suoi scritti di due vie.
La prima, chiamata “inferiore”, racconta il conflitto come una battaglia e la battaglia come una partita di calcio. C’è chi vince, chi perde, chi conta i morti, chi guadagna terreno e chi retrocede.
L’altra via, quella superiore, sposta l’attenzione sulle cause del conflitto e le fa comprendere al pubblico, non racconta solamente la lotta tra due fazioni opposte, ma dà voce alle vittime proponendo soluzioni per il superamento del conflitto. Questa è la via che deve perseguire un’informazione orientata alla pace.
Servono regole e organismi di controllo più severi
Anche le bufale, le notizie false, sono un esempio di informazione che porta al conflitto. Perché chi le crea (e chi maliziosamente le diffonde) ha il chiaro interesse di manipolare l’opinione pubblica, facendo leva sui sentimenti popolari come rabbia e intolleranza verso alcune categorie, su pregiudizi, stereotipi e dicerie.
Sul web e sui social il fenomeno è in preoccupante aumento, ma anche gli altri mezzi di comunicazione non ne sono immuni, tanto che la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha lanciato l’appello #BastaBufale, perché «Essere informati è un diritto, essere disinformati un pericolo».
Il conflitto è anche un problema di linguaggio: sentimenti violenti, aggressioni verbali, minacce, intolleranze e xenofobia costituiscono quello che oggi viene chiamato hate speach (discorso d’odio). Ancora oggi, dopo anni di conquiste sociali e di diritti acquisiti, donne, disabili, islamici, migranti, gay ed ebrei sono le principali vittime di espressioni d’odio, che non raramente sfociano in episodi di violenza fisica.
Tutto questo (la fabbrica della paura, la rappresentazione mediale distorta, le notizie false e le parole ostili) ha aperto un grande dibattito nel mondo dell’informazione sulla necessità di regole più dure per la professione e di organismi di controllo più severi.
È un’ipotesi, ma c’è da considerare che più leggi non fanno di certo migliore un mestiere, che invece avrebbe sempre più bisogno di formazione e di una forte etica personale e professionale. L’informazione ha le sue responsabilità (e l’Ordine dei Giornalisti è chiamato a vigilare) nella costruzione di una società della pace, ma guai a pensare che debba farcela da sola: sul tema informazione e conflitto c’è bisogno del supporto della politica, della scuola, della famiglia e di tutti gli altri agenti educativi.
Al giornalismo, certamente, spetta però l’onere e l’onore più grande: disinnescare i conflitti della società con la parola, parlata o scritta, iniziando a dare il buon esempio. Perché se è vero che non esiste vero giornalismo senza una società democratica, è altrettanto vero che grazie ad un buon giornalismo una società cresce e migliora.