SALUTE MENTALE. ECCO PERCHÈ I MEDIA RIPRODUCONO GLI STEREOTIPI
È difficile raccontare ciò che sfugge alla "normalità". Per questo i media continuano a diffondere luoghi comuni o visioni semplicistiche
di Marco Bruno
21 Novembre 2018
Riproponiamo l’intervento di Marco Bruno, della Sapienza Università di Roma al corso di formazione per giornalisti “Salute mentale, l’informazione che fa male e l’informazione che fa bene”, organizzato dai CSV del Lazio il 20 ottobre 2018.
Da osservatore del sistema dell’informazione, mi interessa il modo in cui alcune dinamiche costruiscono la rappresentazione della realtà, in particolare quando queste dinamiche si rivolgono alla diversità, a ciò che sfugge alla cosiddetta “normalità”. Da questo punto di vista noi sfidiamo il giornalismo, che nella sostanza è racconto della realtà, ma soprattutto di quello che nuovo si muove in essa. Come ci si rapporta con il nuovo? In che modo una serie di prassi comuni e legittime costruiscono la relazione tra ciò che è tipico e ciò che è atipico, tra ciò che appare “normale” e ciò che non lo è?
IL RUOLO DEI MEDIA. Un punto chiave è che i media non sono solo testimoni dello stigma, non sono solo specchio della società, ma sono attori della costruzione sociale della realtà: nel nostro caso contribuiscono a creare lo stigma che investe le persone con problemi di salute mentale. Ovviamente lo stigma ha radici differenti: la più intuitiva penetra nelle categorizzazioni del linguaggio quotidiano, nel quale alcuni termini, come ad esempio “follia”, “pazzia” e soprattutto “raptus”, vengono utilizzati senza alcun significato scientifico per connotare le realtà più diverse.
Un’altra cosa da non dimenticare sul tema del’informazione sulla salute mentale è che larga parte del discorso giornalistico si trova nello spazio della cronaca, dove la malattia mentale sembra diventare una facile spiegazione di ciò che accade. È evidente la tendenza a trarre conclusioni veloci e a fornire spiegazioni facili attingendo a un ambito, quello appunto della malattia mentale, assunto come incomprensibile. Si tratta in qualche modo di provare a dare un senso a quello che avviene senza senso. Questa è la normalità della pratica giornalistica: cercando una spiegazione colgo alcune caratteristiche delle persone e passo così alla tematizzazione secondo la quale esistono problemi che portano ad alcuni casi di cronaca; al netto del fatto che, a volte, questa è un’anticipazione di possibili future strategie difensive o un modo di coprire altre cause, si pensi all’utilizzo di termini “follia”, quando si parla di femminicidio. Il ricorso a questi termini ha una duplice valenza: da un lato fornisce quasi una sorta di alibi, dall’altro è tranquillizzante (“sì, ma era un pazzo”).
LE RICERCHE. Può essere utile ripercorrere una qualche evoluzione storica del tema, a partire dalle relativamente poche ricerche che hanno indagato l’immagine della salute mentale nei media. Negli anni cinquanta l’informazione su questi temi era fortemente caratterizzata da stereotipizzazione, dalla focalizzazione sulla stranezza dei sintomi, sulla bizzarria delle azioni, sulla “diversità” dell’aspetto (Nunally 1961; Magli et. al. 2004), c’era molto sensazionalismo e una forte connessione tra malattia mentale e atti di violenza, in particolare assassinii (Scheff, 1976).
Negli anni settanta c’è stato nella stampa un cambiamento di sensibilità e si nota una sorta di ambivalenza: da una parte una «nuova sensibilità verso i problemi scientifici, sociali, politici della devianza mentale» (Bellotti et al. 1997), dall’altra il persistere di «credenze, opinioni popolari e tradizionali basate su conoscenze pseudoscientifiche e su una certa ostilità verso i malati mentali».
Inserisco qui una considerazione: ovviamente i giornalisti non hanno una preparazione specialistica su determinati temi e non possono averla; il punto è: con che cosa si sostituisce la mancanza di preparazione specialistica? Spesso si sostituisce con una soluzione facile, con una credenza popolare, uno stereotipo o ancora meglio con un modello di notizia al cui interno è facile inserire il singolo fatto. In qualche modo i giornalisti – come del resto tutti noi – combattono con la tendenza ad adottare categorie molto rigide nelle quali far entrare i singoli fatti, perché bisogna essere veloci e perché le nostre categorie sono forti, stabili. E perché, tra l’altro, l’utilizzo di etichette aiuta ad intercettare la comprensione dell’uditorio.
Arriviamo agli anni ottanta e alla legge 180, che ha segnato un discrimine. Una ricerca condotta tra il 1977 e il 1979 (Vender et al.) mette in evidenza due tendenze: da una parte evidenziare parziali tratti del malato per poi generalizzarli al fine di sostenere tesi ideologiche e politiche; dall’altra assecondare il sensazionalismo di cronaca, per cui il malato mentale “fa notizia” quando compie atti antisociali. Il paradosso è che, proprio in quel periodo di maggiore consapevolezza sociale, nella grande stampa c’è stata una sorta di attenzione per i casi negativi e in qualche modo un peggioramento dell’immagine del malato mentale, soprattutto sul problema della criminalità e dell’assistenza.
LE DUE TENDENZE. Se tracciamo un quadro più di lungo periodo abbiamo una sequenza di questo tipo: il nesso violenza ingiustificata-follia; un cambiamento sociale per cui il malato mentale entra nella narrazione anche come vittima di emarginazione, e quindi una complessità del discorso giornalistico e in qualche modo la contraddittorietà tipica degli anni otttanta; successivamente in qualche modo si solidificano queste due tendenze, da un lato quella chiaramente stereotipante, che individua alcuni tratti e li generalizza, per un utilizzo in qualche modo politico di singoli fatti, e dall’altro quella di assecondare il sensazionalismo di cronaca. C’è un altro aspetto un po’ antipatico in questo sensazionalismo, che riguarda però pezzi di giornalismo e pezzi di infotainment: un apparente mettersi dalla parte del malato mentale per spettacolizzarlo. Anche questa è una trappola a cui fare attenzione.
LA CRONACA. È del 2002 poi un’analisi qualitativa (Carpiniello) sulle testate locali e nazionali: emerge la prevalenza di un giudizio negativo e la presunta pericolosità delle persone con problemi di salute mentale, pur in presenza di ambivalenze. Si riscontra un maggior numero di eventi correlati a soggetti con malattia mentale, pur considerando che lo spazio riservato alla cronaca è di per sé prevalente nei media (e quindi, gonfiandosi la cronaca, si gonfiano anche le narrazioni e le rappresentazioni). In circa il 40% dei casi, atti violenti vengono attribuiti a patologia mentale, a volte senza uno specifico accertamento, mentre la correlazione è più cauta in caso di omicidio e suicidio; infine, l’evidenza dei titoli di prima pagina tende ad aumentare se si tratta di eventi collegati alla malattia mentale.
LE CORNICI INTERPRETATIVE. Per un’analisi dell’informazione, è interessante la prospettiva che ci offre il concetto di frame o cornice (Bruno 2014), che potremmo definire come una specie di margine per racchiudere, indicare un confine, distinguere ciò che è dentro e ciò che è fuori dal margine stesso, che «specifica ciò che è rilevante e ciò che dovrebbe essere ignorato» (Ferree et al. 2002, 14, cit. in Marini 2006, 70). Al di là di interpretazioni semplicistiche, una cosa interessante e che i media fanno è appunto costruire frame, o porzioni di frame, suggerendoci quindi come incorniciare e come dare senso ad una serie di argomenti.
Semplificando di molto i termini della questione, possiamo dire che i media selezionano alcuni aspetti della realtà, combinandoli tra loro per fornire, in qualche modo, una lettura coerente del problema. Il framing è esattamente il processo per cui singoli elementi, per le loro caratteristiche e per come si connettono tra loro, danno indicazioni più generali sull’interpretazione del fatto. Cosa che avviene più efficacemente quando c’è un aggancio culturale, l’utilizzo di determinati termini, immagini, metafore che attivano immediatamente quadri di riferimento, cornici di senso.
DOMINARE IL MALE. Dunque, ciò che è fuori dalla cornice è diverso da ciò che è dentro il quadro. La selezione quindi è anche interpretazione. Il problema di chi fa informazione è come ricondurre il male e l’ignoto all’interno di schemi in qualche misura noti: vale in generale per tutte le notizie di cronaca e serve per rinforzare i frame e gli schemi mentali. Un esempio paradossale ce lo fornisce il mio collega Binotto (2012): lo schema della malattia viene applicato dal giornalista all’autismo e così la Giornata sulla consapevolezza dell’autismo viene presentata dal giornalista come giornata per “sconfiggere” l’autismo. La malattia costituisce un frame “facile” e conosciuto e il singolo evento viene forzato per rientrarvi, anche se ne nasce una distorsione, perché in questi termini viene trattata una “condizione”.
Succede sostanzialmente, secondo Young (1985), che i media in qualche modo si caricano di una «rappresentazione consensuale» del mondo, nella quale «le violazioni vengono considerate atipiche (e formano il piano implicito delle notizie) e messe in contrasto con la maggioranza ipertipica della popolazione (che forma lo sfondo implicito o meno cospicuo delle notizie)». In altri termini, le violazioni sono considerate atipiche, ma noi sappiamo che sono parte normale della società. I media incapsulano questa a-normalità in forme tipiche, normalizzate, costruendo quindi lo stereotipo in cui incanalare il soggetto. In sintesi, lo stereotipo incapsula la devianza in una struttura stabile e riconoscibile: «l’atipico tipico».
LE TRAPPOLE. Aggiungo una piccola annotazione. Alcune opportunità di affrontare le tematiche legate alla diversità sono sicuramente interessanti, ma possono anche rivelarsi delle trappole: le giornate dedicate alle malattie, ad esempio, portano a calendarizzare i temi ma in qualche Misura anche a depotenziarli sul medio-lungo periodo; oppure l’utilizzo delle storie dei singoli: dal punto di vista giornalistico servono tantissimo, ma a volte si pongono ad un livello differente dalla normalità, che si somma al pericolo del paternalismo o della spettacolarizzazione.
C’è un po’ il rischio di bellissimi reportage che ci portano a viaggiare su linee parallele rispetto alla quantità e la normalità delle informazioni che spesso creano lo stigma con un lavorio, invece, quotidiano.
Sul tema dell’informazione sulla salute mentale, abbiamo pubblicato anche l’intervento di Paola Aristodemo, giornalista RAI.