LE ISTITUZIONI EUROPEE, QUESTE SCONOSCIUTE. COLPA DELLA CATTIVA INFORMAZIONE?
Santaniello: c’è una bella Europa che è un insieme di ricche opportunità, ma non va mai in prima pagina. In Rete troppe fake news
13 Marzo 2019
Questa intervista su come viene fatto in Italia l’informazione sull’Europa è tratta dal numero 3/2018 di VDossier, che si può scaricare qui.
Una realtà burocratica, un po’ opprimente, lontana dalla vita dei cittadini. È questa l’informazione sull’Europa che i media veicolano prevalentemente? E può essere uno dei motivi che alimentano le spinte sovraniste o comunque antieuropee che sembra no in espansione? Ne abbiamo parlato con Roberto Santaniello, giornalista e ricercatore, che lavora dal 1985 nelle istituzioni europee. Dal 1991 è funzionario della Commissione europea, dove a vari livelli, si è occupato di informazione e comunicazione. Attualmente dirige lo Studio Europa presso la Rappresentanza in Italia della Commissione europea. Svolge attività di insegnamento in diritto e politiche dell’integrazione europea presso diversi atenei italiani.
«Effettivamente – dice Santaniello – oggi il filo narrativo è questo: che l’Europa è una fonte di vincoli e non di opportunità, che i chiari sono molto più sfumati degli scuri e che la severità “oppressiva” prende il sopravvento sulla positività della presenza dell’Unione.
Questo è quello che l’opinione pubblica sembra percepire, alimentato sia dalle forze politiche che sono oggi al governo, sia da una buona parte dei media tradizionali, sia dalla maggior parte dei new media, attraverso il fenomeno delle fake news. E anche in parte da un certo ceto intellettuale, che ha modificato il proprio modo di pensare, anzi di esprimersi, perché mentre prima trasudava negatività, ma con un certo equilibrio,
adesso si è liberato di tutti i freni intellettuali e non ha timore di picchiare duro contro l’Unione europea (mi riferisco soprattutto ad alcuni editorialisti)».
Tra i cittadini italiani c’è molta disinformazione, ad esempio su come “funziona” l’Unione, che poteri ha, chi decide, che iter seguono i provvedimenti…
«Se ci mettiamo al portone e chiediamo a chi passa come si fanno le leggi in Italia, credo che ci risponderebbero forse due persone su dieci. Perché non dovrebbe succedere
la stessa cosa per l’Unione Europea? (….anche se non dovrebbe essere cosi)».
…che oltretutto è più complessa.
«O forse la rendono tale. Pensiamo alle vicende dell’ultima legge di bilancio in Italia, al maxiemendamento e al fatto che non è stato dato spazio alla discussione in Parlamento: una cosa del genere in Europa è impensabile. I meccanismi di controllo e di rispetto democratico sono certamente più formali, ma anche più rispettosi per i cittadini. La gente però non lo sa, e in pochi glielo lo ricordano».
Forse in questo c’è anche un ruolo della scuola?
«Certamente: servirebbero spazi e testi divulgativi per la scuola, a tutti i livelli. Serve senz’altro più spazio formativo. Credo inoltre che il mondo della scuola abbia bisogno
anche di altri strumenti, familiari ai giovani: per raggiungere i ragazzi possiamo raccontare storie su Instagram o ancora incoraggiare l’utilizzo di radioweb, un fenomeno in espansione».
Torniamo al ruolo della informazione sull’Europa.
«C’è un problema complessivo di cultura dell’informazione, tradizionalmente carente in Italia. Pensiamo alla RAI, cioè al servizio pubblico: dovrebbe essere molto più presente sui temi europei, anche come contratto di servizio. Invece spesso si ha l’impressione che lo sia solo a parole: nelle trasmissioni generaliste non c’è spazio, le trasmissioni specializzate vanno in onda in orari impensabili… Manca oggettivamente un concerto di informazione che definirei “civica”, nazionale e tanto più europea».
Sembra un circolo vizioso: ai cittadini l’Europa non interessa, io ho bisogno di fare audience, e dunque mi occupo di altro.
«Si, ma ribadisco: qui stiamo parlando di servizio pubblico. La Rai ha degli editori, ha degli inserzionisti pubblicitari, ma ha anche un dovere di servizio pubblico».
C’è dunque un problema quantitativo: si fa poca informazione sull’Europa?
«Dipende. L’offerta di informazione da parte delle istituzioni europee è tantissima. Chi va a guardare i nostri siti rischia di smarrirsi, per la quantità di informazioni che ci trova. Il sito europa.eu contiene qualcosa come un milione di documenti, la maggior parte dei quali in tutte le lingue. Ci sarebbe però bisogno di intermediatori, anche se siamo in epoca di “disintermediazione”. Diverso è il tema della domanda, dove bisogna distinguere quella che proviene dai cittadini e quella che ha origine dai media.
La domanda dei cittadini è più o meno a buoni livelli. I media tradizionali (televisione e giornali) prediligono solo storie negative e trascurano le notizie sulla “Buona Europa”.
Poi ci sono i new media, in particolare i social network, che, tranne in rari casi, sembrano avere un solo obiettivo: metterci in cattiva luce. Dove arriva l’incrocio tra domanda e offerta? A un punto di equilibrio certo più verso il basso di quello che sarebbe auspicabile e che avrebbe necessità di essere corroborato da una maggiore consapevolezza dei media tradizionali, quelli che formano l’opinione pubblica, e di maggiore lealtà e direi serietà (tanto più deontologia) da parte di coloro che producono e diffondono fake news».
Il problema è quindi di qualità e di percorsi: l’informazione prodotta dall’Unione non arriva ai cittadini, e quella prodotta dai media è deformante.
«In origine si puntava tutto sui giornalisti accreditati nella sala stampa della Commissione europea a Bruxelles. Oggi, le istituzioni europee sanno che dobbiamo essere presenti sui social network, con tutti i pro e i contro che ne conseguono: siamo certamente più diretti, ma anche più esposti a deviazioni dei messaggi e dei significati e sappiamo che sui social i contenuti negativi e le fake news vengono commentati e condivisi molto più delle notizie vere: vale in tutti campi, non solo in questo».
L’impressione è che sia i politici, sia i media raccontino l’Europa sempre e solo in funzione delle dinamiche interne al nostro Paese. Siamo troppo provinciali?
«Si, ma voglio subito sottolineare che non è un fenomeno solo italiano. Le elezioni europee, ad esempio, sono sempre state considerate un’occasione di rivalsa per le forze di opposizione (mentre questa volta, per l’Italia, saranno un test per rafforzare, ed eventualmente, riequilibrare, le forze di governo). Gli elettori votano per inviare messaggi di disagio o aperta critica al proprio Governo, senza penalizzarlo, non agli eletti del nuovo Parlamento europeo, di cui probabilmente non conoscono indirizzi e poteri. Questo vale per tutta Europa».
Qual è la responsabilità dei politici e qual è la responsabilità dei giornalisti?
«La responsabilità dei politici è di essere troppo ancorati alle dinamiche interne e di breve periodo, che non vanno al di là della successiva consultazione elettorale. Quanto ai giornalisti offro questa riflessione: c’è un editore puro in Italia? No. Gli editori sono vicini alla politica, non riescono a distanziarsene. Poi ci sono le ragioni del mercato: gli editori puntano a vendere più copie e ad avere più ascolti. Come si ottiene questo? Parlando bene o parlando male dell’Europa? Nel nostro lavoro troviamo anche il giovane gentile
dell’agenzia di stampa o il praticante entusiasta della testata nazionale, che vorrebbero dare spazio più ampio e più costruttivo ai temi europei, ma che poi devono fare i conti con il caporedattore che non glielo dà (che a sua volta dà la colpa al direttore e questi all’editore). Pensi al povero Megalizzi, vittima dell’attentato di Strasburgo: non ha l’impressione di una grande ipocrisia in quello che è stato scritto su di lui, dopo che è
morto, trasformandolo in un eroe? Prima nessuno lo prendeva in considerazione, eppure era uno che voleva davvero capire e raccontare l’Europa. Ripeto: credo che non ci sia un sufficiente senso civico per fare una buona informazione sull’Europa, come del resto sull’Italia».
C’è, in una qualche percentuale, una responsabilità delle istituzioni europee, che non sanno comunicare?
«Secondo me investono ancora troppo poco nella comunicazione, in particolare quella istituzionale e valoriale. In un periodo di vacche magre per il bilancio dell’Unione europea, le risorse diminuiscono in valore relativo. Lo sforzo sui social media è importante, il rapporto con la sala stampa di Bruxelles, quindi con un migliaio di giornalisti accreditati, è continuo e diretto. Si può anche dire che c’è un’alleanza tra i portavoce delle istituzioni e i giornalisti: entrambi salvaguardano e valorizzano il proprio lavoro. Questo è il “primo mercato”, che copre le grandi iniziative, le notizie di prima pagina. Poi c’è un secondo
livello, quello che io chiamo il “mercato secondario”, cioè quello dei giornalisti negli Stati membri che vogliono scrivere dell’Europa e che a volte si trovano a dover affrontare la resistenza dei corrispondenti, che si sentono esautorati. Questo mercato è importante e ha potenzialità enormi. Va coltivato meglio (e in fretta), perché riguarda soprattutto i media locali e quelli della società civile».
Che cos’è che l’informazione sull’Europa non racconta?
«La bella Europa, che è un insieme di politiche e di opportunità. È l’Europa del sostegno positivo alle progettualità virtuose di tante imprese e di tanti giovani ricercatori italiani. È l’Europa concreta che aiuta l’economia reale a crescere e adeguarsi nel palcoscenico della globalizzazione. E tutte le cose positive che l’Europa fa per l’Italia, anche attraverso i finanziamenti dei fondi strutturali».
L’associazionismo ha o dovrebbe avere un ruolo in tutto questo?
«Nel 2006 la Commissione Europea ha pubblicato il “Libro Bianco su una Politica Europea di Comunicazione”. Quel documento conteneva, oltre ad un insieme di azioni concrete, una buona intuizione, la stessa intuizione che sta alla base della campagna
“Stavolta voto” (#stavoltavoto), che considera i giovani non solo come votanti, ma anche come ambasciatori dell’invito a votare e concorrere alla democrazia europea. Il Libro Bianco aveva individuato proprio nell’associazionismo europeo l’attore chiave della politica di informazione sull’Europa. Credo che questa sia la strada. L’associazionismo italiano dovrebbe fare uno sforzo maggiore di presenza, anche presso di noi. Stiamo cercando di mettere in atto una politica di coinvolgimento dei cosiddetti stake holder, gli “ambienti interessati”, rovesciando la domanda: da “cosa possiamo fare per voi?”, a che “cosa potete fare voi per noi?”. Il vostro mondo dovrebbe essere un protagonista dei processi di integrazione».
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