RIFORMA E INFORMAZIONE: PER COMUNICARE L’INNOVAZIONE SERVE LA RETE
La riforma ha introdotto importanti mutamenti in un settore che pesa il 4% del PIL. Come creare una nuova alleanza tra informazione e sociale per comunicare l’innovazione?
01 Febbraio 2018
Con l’emanazione dei decreti legislativi su servizio civile universale, cinque per mille, impresa sociale e codice del terzo settore, la Riforma che in quest’ultimo anno ha visto protagonisti gli enti non-profit è giunta quasi al termine. Se dal punto di vista operativo i tempi per l’attuazione dei nuovi regolamenti saranno lunghi (e non privi di criticità) una riflessione andrebbe fatta sul modo in cui gli attori di questo settore riusciranno a comunicare tale cambiamento.
Ciò che la riforma ha fotografato è un settore per tanti aspetti ormai autonomo e in grado di difendersi. L’ultimo censimento sugli enti non-profit in Italia elaborato dall’ISTAT conta oltre 336mila istituzioni, 789mila dipendenti e una cifra di volontari che si attesta a 5,5 milioni, il 16% in più rispetto al 2011. Un intero comparto del nostro Paese che pesa il 4% del PIL.
Cifre importanti che però stentano ad entrare nei circuiti di informazione. Marco Binotto, ricercatore presso l’università “La Sapienza”, ha citato dei dati secondo cui otto telegiornali italiani nel 2017 hanno dedicato ai temi sociali solo 0,80% del tempo complessivo di questi tg è stato riservato alla solidarietà e al volontariato con picchi nel periodo estivo e in quello natalizio (nel 2012 si raggiungeva l’1,61%).
PARTIRE DALLE PAROLE. È quindi il terzo settore a non saper comunicare o il mondo dell’informazione a non saper raccontare questa realtà? Da una parte ci sono i giornalisti che riescono a parlare di volontariato solo grazie alla formula dello storytelling, dall’altra gli enti che operano nel quotidiano, anche quando non ci sono emergenze, e quindi con la difficoltà di diffondere attraverso i media il loro impegno. Le responsabilità sono da entrambe le parti, ma un punto di partenza per questa nuova alleanza da fondare tra informazione e sociale, può essere il cambio di alcune parole.
Ad esempio “esclusi”. «Il terzo settore», spiega lo psico-sociologo Jamil Amirian, «nasce a metà anni ottanta, quando il fallimento dello Stato in tema di welfare ha attivato molte persone ad unirsi per trovare la risposta ad alcuni bisogni. Oggi però quale potrebbe essere una notizia? Negli anni ottanta c’erano gli “esclusi” da raccontare, ma oggi chi sono questi esclusi? Forse è il caso di allargare il concetto di disagio sociale e cambiare le letture dei contesti in cui operiamo. Oggi, ad esempio, un percorso di avvio all’impresa per alcuni giovani costretti a lasciare la propria città per trovare lavoro, è una risposta ad un bisogno sociale e ciò potrebbe diventare notizia. La sfida del sociale non può che essere l’innovazione, perché le stesse persone che lo compongono lo sono».
L’obiettivo da raggiungere quindi non è solo l’innovazione nel sociale ma anche del sociale: in questo la neo-riforma può venirci incontro. «L’obiettivo della riforma», spiega il tributarista Alessandro Mazzullo , «è stato quello di fotografare un soggetto in movimento, ecco perché, per certi aspetti, è nata già vecchia. Ma uno degli obiettivi raggiunti è stato quello di disegnare il perimetro del terzo settore definendo i requisiti per essere considerati ETS (enti del terzo settore). Ed è in questo che consiste la vera innovazione».
LA NOTIZIABILITÀ DELLA CONTAMINAZIONE. Uno dei criteri per essere definiti ETS è il perseguimento di “fini generali”. Ma nel mercato esistono già delle forme associative che, al pari di associazioni, perseguono questi fini (come ad esempio le società di benefit). E ancora lo svolgersi di attività con “fini non lucrativi”: anche il settore pubblico non remunera soldi (ma presta servizi) e persino alcune forme di mercato nascono con l’obiettivo di non redistribuire gli utili.
E gli stessi ETS potranno (in via esclusiva o prevalente) svolgere attività commerciali (basti pensare al commercio equo-solidale). «La vera innovazione della riforma», continua Mazzullo, «sta quindi nella contaminazione tra i diversi settori. Si può diventare notiziabili se si crea rete tra diversi soggetti, sociali, pubblici e privati. E occorre lasciarsi alle spalle il rischio dell’autoreferenzialità».
Il sociale, quindi, non è mai innovativo da solo. È importante ascoltare i propri operatori, volontari, responsabili, percependo all’interno degli ambienti il cambiamento e leggendo con altri occhi il proprio contesto. Forse, la vera sfida di questa riforma sarà rispondere nuovamente a due domande: chi siamo? cosa facciamo? E da qui iniziare a comunicare.
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