IMMIGRATI. L’INTEGRAZIONE SI FA IN OSPEDALE
Secondo il Censis non ci sono problemi nell'accesso alle cure e l'ambiente sanitario non è discriminante
27 Novembre 2015
I luoghi più integrati in Italia? Gli ospedali. È curiosa l’indagine condotta dal Censis in collaborazione con la fondazione Farmafactoring, perché premia il nostro servizio sanitario nazionale come eccellenza di integrazione multiculturale, un modello per tutti gli altri paesi europei. Un’indagine corredata anche dalla mostra fotografica, “I nuovi pellegrini” in esposizione presso Palazzo Borghese, che racconta il viaggio di tre fotografi italiani (Alessandro Scotti, Edoardo Dlille e Umberto Fratini) rispettivamente negli ospedali del Sud, del Centro e del Nord Italia. Dall’ospedale di Modica (RG) sino all’ospedale di Bergamo le foto mostrano un’accoglienza universale che se nel Sud – per flussi di arrivo – è vissuta come emergenza, al Nord, invece, è percepita come quotidianità.
In Italia vivono 5 milioni di stranieri di 197 nazionalità diverse con una estrema varietà di culture, usi e appartenenze religiose. L’80% di loro, quando avuto bisogno di cure, non ha incontrato nessuna difficoltà nell’accesso ai servizi della sanità pubblica. Ogni anno su mille persone che accedono al Pronto Soccorso 66 sono straniere e la maggior parte di loro non trova difficoltà a spiegare al medico i propri problemi (con una differenza tra chi sta in Italia da più anni e chi è arrivato da poco). I più curati sono i maschi tunisini (131 su mille) e le donne marocchine (101 su mille); meno intenso è l’accesso ai servizi sanitari pubblici da parte dei cinesi (23 su mille). Se complessivamente il 29% degli stranieri dichiara di aver subito una qualche forma di discriminazione in Italia, solo in pochissimi casi ciò è avvenuto in ambienti sanitari.
Il primato della relazionalità
Perché sono i luoghi della sanità a fare più integrazione? «Probabilmente», spiega Giuseppe De Rita, presidente del Censis, «perché la struttura italiana si basa su due capisaldi: un’organizzazione molecolare e una forte spinta alla relazionalità. L’Italia non è un paese fatto di grandi multinazionali, ma uno stato composto da 8900 comuni, ognuno con le proprie tradizioni e appartenenze. Ci viene facile accogliere la badante per curare i nostri anziani o impiegare gli africani nelle fabbriche di grana in Emilia. Ecco perché anche gli ospedali sono pronti ad accogliere tutti, senza distinzioni tra chi ha i soldi e chi no (come invece avviene nel sistema americano). E sono convinto che, se facessimo lo stesso viaggio fatto negli ospedali, nelle scuole, ci accorgeremmo di quanta integrazione silenziosa c’è lì. Poi c’è il primato della relazionalità, caro all’italiano perché lo ha sperimentato nel piccolo borgo o paese dov’è nato, nella piccola azienda dove ha lavorato o nel percorso scolastico che ha condotto. È una dimensione fisiologica del nostro popolo».
Poca protezione ai rifugiati
Anche sulla questione dello ius soli, l’Italia è alquanto concorde. Il 44% degli italiani, infatti, ritiene che è cittadino italiano chi nasce sul suolo italiano, per il 33% chi vive in Italia per un certo periodo di tempo minimo (non importa dove sia nato), per il 19% chi ha genitori italiani. Una percezione più inclusiva e incoraggiante di quella mostrata e alimentata dai media. «Si confondo spesso i migranti con gli sbarcati», spiega il professor Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni. «Le migrazioni sono un fenomeno naturale e storico. La maggior parte dei migranti al mondo non si muove per disperazione, ma perché presa da grande speranza. Su circa 7 miliardi di abitanti sulla terra se ne spostano 235 milioni. Piuttosto dovremmo chiederci perché il 97% non si sposta. Non si può giustificare il movimento solo a causa dei conflitti, perché per migrare c’è bisogno di visioni, legami, contatti, competenze. La migrazione è un vero e proprio affare riguardante la classe media. La sfida che ci si presenta non è quella di bloccare le migrazioni, ma ridurre la distanza fra le aspettative di chi intraprende il viaggio e le possibilità di chi può accogliere. Ad esempio l’Italia è uno dei paesi che offre troppa poca protezione ai rifugiati».
E infine uno sguardo al futuro con la demografia italiana salvata dagli immigrati. Le donne straniere, infatti, mettono al mondo in media 2,1 figli rispetto agli 1,3 delle italiane e hanno un’età media al parto molto inferiore: 28,5 anni le straniere, 32,1 le italiane. Oggi il 20% dei bambini in Italia ha almeno un genitore straniero e circa il 15% ha entrambi i genitori stranieri. Insomma, una multiculturalità che è quotidianità più di quanto crediamo o ci fanno credere.