FABIO GIGLIONI: LA PA DEVE INTERCETTARE LE ENERGIE DELLA SOCIETÀ CIVILE
Fabio Giglioni interverrà sulla collaborazione tra associazioni e istituzioni nel convegno CSV Lazio del 16 Giugno. «La collaborazione richiede che i cittadini non siano visti solo come destinatari dei provvedimenti, ma come alleati»
13 Giugno 2023
«Il patto di collaborazione è lo strumento, niente più di questo. Quello che deve perseguire il patto, affinché sia coerente con la sua natura, è mobilitare davvero risorse, liberare energie. creare comunità. La realizzazione del patto deve diventare l’occasione in cui l’amministrazione è capace di intercettare le energie, le risorse che sono in disponibilità della società civile. Che deve a sua volta farsi carico degli interessi generali con senso di responsabilità». A parlare è Fabio Giglioni, professore ordinario di Diritto amministrativo Sapienza Università di Roma e consigliere Labsus, che interverrà nella tavola rotonda dedicata alla collaborazione tra associazioni e istituzioni, nell’ambito del convegno CSV Lazio del 16 giugno dal titolo Costruire nel presente immaginando il futuro.
Fabio Giglioni è professore ordinario di Diritto amministrativo. Ha conseguito nel 2000 il titolo di dottore di ricerca in Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Milano. Insegna presso il Dipartimento di Scienze politiche alla Sapienza dal 2005, alternando Diritto amministrativo, Diritto alla salute, Diritto dell’ambiente e, più recentemente, Diritto delle città e della sicurezza urbana. Ha svolto ricerche di studio all’Università di Oxford (2017) e all’Università di Santiago de Compostela (2014). È coordinatore del dottorato di Diritto pubblico, comparato e internazionale. Ha preso parte a tre programmi di ricerca nazionale (PRIN), beneficiato nel 2017 del finanziamento nell’ambito del Fondo di finanziamento dell’attività base della ricerca (FFABR), mentre nel 2002 è stato finanziato nell’ambito del Progetto Giovani Ricercatori dal Murst e ha, infine, ricevuto la nomina nel 2009 quale migliore libro giuridico dell’anno dal Club dei Giuristi per il libro “L’accesso al mercato nei servizi di interesse economico generale”. Nel 2022 è stato membro della Commissione per la riforma nazionale in materia di pianificazione del territorio, standard urbanistici e in materia edilizia e, sempre dal 2022, è membro della Commissione nazionale paritetica alloggi e residenze per studenti universitari.
Collaborazione tra volontariato, terzo settore e istituzioni. Quale la teoria? Quale, invece, la pratica?
«C’è perfetta connessione. In qualche modo la teoria ha tratto frutto anche da una pratica. Parlo del piano che conosco, quello giuridico. La collaborazione si è affermata in sede giuridica anche attraverso l’osservazione della realtà, che ha permesso di trarre quello che è un vero e proprio principio, presente nell’art. 1 della legge 241/1990, la legge fondamentale delle pubbliche amministrazioni. È diventato un principio di carattere generale per cui le amministrazioni oggi devono agire nel rapporto con i cittadini, quindi anche nelle loro proiezioni organizzative, in termini di collaborazione. C’è una stretta connessione tra teoria e pratica, con una primarietà della pratica che si è imposta e ha permesso una teorizzazione che gli studiosi prima hanno sollevato e il legislatore poi ha consacrato. A volte le teorie sembrano campate in aria e hanno poco riscontro nella realtà: qui stiamo parlando di un buon matrimonio, ovviamente non esente da problemi».
A che punto siamo nel Lazio?
«Nel Lazio c’è stato un forte investimento sulla collaborazione. Per collaborazione intendiamo quelle modalità con cui organizzazioni sociali e istituzioni progettano insieme soluzioni di intervento rispetto a problemi che considerano di interesse generale. Che è altra cosa dalla partecipazione, percorso che consente a soggetti della società civile di influenzare le decisioni. A livello di collaborazione il Lazio si è speso molto, ci sono stati grossi finanziamenti volti a promuovere interventi sulla realtà sociale, sul territorio, in materia ambientale. È stata la prima regione a tradurre quella che è nota come amministrazione condivisa a livello regionale, approvando una legge, la 10/2019, che ha replicato a livello regionale l’esperienza che fin lì si era diffusa solo a livello comunale. C’è stato un forte investimento, non esente da problemi: forse sul piano attuativo non è riuscita ad andare oltre un sostegno di carattere finanziario, una serie supporti di carattere economico-finanziario. Che vanno sempre bene, ma forse sarebbe stato utile un maggiore impegno in fase di progettualità».
Co-programmazione e co-progettazione trovano terreno di effettiva applicazione? Che tipo di cambiamenti e di impegno sono richiesti alle parti affinché questa collaborazione sia strumento quotidiano e non mero enunciato?
«Sicuramente sono realtà. Dall’approvazione del Codice del Terzo Settore sono stati fatti ulteriori passi in avanti per dare gambe a questi processi. C’è una novità interessante: con il Codice dei contratti pubblici, che entrerà in vigore a luglio, tutta questa esperienza è di nuovo salvaguardata. C’è stata, infatti, una fase di ambiguità in cui queste espressioni – co-programmazione e co-progettazione – erano state viste come soluzioni che volessero eludere il codice dei contratti pubblici. Ma è stata fatta chiarezza, per fortuna è stato spiegato che sono cose diverse e vanno gestite diversamente. Alle PA si richiede la consapevolezza che queste sono strade percorribili, che la stagione che le ha funestate, in cui si doveva solo applicare in modo rigido e meccanico il codice dei contratti pubblici, è finita. Non so se questo sia stato compreso, forse sì. È ancora un percorso che a me sembra da rafforzare. Ai soggetti del Terzo Settore si richiede lo sforzo di capire che fare questa strada alternativa ai bandi non significa perdere la necessità di migliorare sotto il profilo della capacità progettuale e la capacità di dare una risposta ai problemi sociali con un’organizzazione adeguata. Il fatto che che non si chieda più loro di concorrere con le imprese non deve autorizzare ad abbassare il livello di qualità dei servizi e delle prestazioni. Questa nuova via non deve essere vista come un tornare a un passato dove tutto era consentito. Una crescita professionale ci deve essere anche da parte della società civile».
Nella sua intervista, Gianluca Cantisani – che ha introdotto il secondo world cafè su volontariato in cambiamento e nuove forme di attivismo civico, in preparazione del convegno del 16 giugno – parlando di patti di collaborazione, ha detto: “I patti siano strumento, non obiettivo. Obiettivo sia l’amministrazione condivisa, unica via per il Paese”. Cosa ne pensa?
«La condivido totalmente. Il patto di collaborazione è lo strumento, niente più di questo. Quello che deve perseguire il patto, affinché sia coerente con la sua natura, è mobilitare davvero risorse, liberare energie. creare comunità. La realizzazione del patto deve diventare l’occasione in cui l’amministrazione è capace di intercettare le energie, le risorse che sono in disponibilità della società civile. Che deve a sua volta farsi carico degli interessai generali con senso di responsabilità. Se questo si crea, l’amministrazione condivisa è il vero obiettivo. Il patto di collaborazione in sé non risolve: laddove non venga interpretato fino in fondo questo aspetto il patto di collaborazione rischia di assumere la veste di un’autorizzazione, una concessione. Il senso è muovere energie che insieme risolvono problemi».
Sempre Cantisani, in tema di amministrazione condivisa, sottolineava come in Italia vada per la maggiore l’idea ottocentesca che a qualcuno sia delegato il funzionamento dello Stato, mentre la soluzione per il Paese sia l’amministrazione condivisa. Serve quindi anzitutto un cambio culturale. Che ne pensa?
«Per capire questo, bisogna tenere conto che le amministrazioni pubbliche si sono formate in una storia di ormai più di 200 anni, in cui l’idea era che il detentore del potere pubblico erano le PA e di separare le stesse PA dalla società civile per non inquinare gli interessi pubblici. Questo modello non va più bene, ma la quasi totalità dei dipendenti pubblici si è formata dentro quello schema. E qui c’è un lavoro culturale da fare, anche da parte delle università: come professore universitario sento la responsabilità di questo scarto da colmare. Il principio di collaborazione sui libri universitari c’è da un anno, forse due: il lavoro da fare è molto. L’amministrazione condivisa dovrebbe essere anche l’occasione per ridefinire i programmi di formazione, soprattutto in una fase storica importante in cui per varie ragioni, non ultima la pandemia, si è capito che quel modello di amministrazione che per anni si è sostenuto come un pilota automatico non funziona più. È una stagione in cui il funzionario amministrativo ritrova una sua centralità, una sua autonomia. Che però va arricchita di modelli, di accrescimento culturale che faccia in modo che lui sappia intrepretare i cambiamenti in atto».
Quali sono gli aspetti, le differenze da colmare, anche da un punto di vista molto pratico?
«Dal lato amministrativo l’accrescimento culturale, la capacità di capire che la collaborazione richiede nuove strade alla soluzione di problemi di interesse generale, e quindi che i cittadini non siano visti solo come i destinatari dei provvedimenti ma anche come potenziali alleati. Questo significa che l’amministrazione, che i funzionari siano capaci di dialogare con i cittadini, che non si comportino come succede nelle normali partiche burocratiche. Si tratta di cambiare approccio. Da parte dei cittadini, deve cambiare una filosofia che è solo di tipo rivendicativo, solo di opposizione. Se vogliamo trovare una via collaborativa, bisogna che anche loro facciano uno sforzo, si impegnino. La collaborazione amministrativa non è a costo zero neanche per cittadini e associazioni: richiede un impegno, una messa in campo di risorse che non necessariamente verranno tutte ripagate».
CSV Lazio ha con Anci un protocollo per la promozione della collaborazione tra volontariato e Comuni della regione. Secondo lei i CSV possono svolgere un ruolo che apporti un contributo che faccia la differenza? E il protocollo essere una buona pratica a cui guardare?
«Sicuramente sì. Può essere un’opportunità rilevante. Il CSV ha una funzione nodale, dialoga, da un lato, con le organizzazioni, che rappresenta e indirizza verso un modello, una soluzione. E dall’altro, con l’Anci, è capace di intercettare e modificare il lato delle amministrazioni comunali. Mi sembra un buon progetto più che una buona pratica, che può essere molto utile».
Il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni trova in Italia una diffusione non ancora uniforme. Se dovessimo dire, quali sono i tre elementi che incidono maggiormente?
«Questo può essere un limite. Nessuno può obbligare un Comune ad adottare un regolamento. Ma le Regioni possono mettersi a sostegno: abbiamo parlato del Lazio, ma leggi analoghe le hanno fatte la Toscana, l’Umbria, l’Emilia Romagna. Quante più regioni si mettono in quest’ottica, tanto più potranno aiutare questo processo. Sia la legge toscana che la legge laziale prevedono incentivi per le amministrazioni che percorrono quella strada. Questo può essere un elemento attraverso cui realizzare quella legislazione capillare. Con Labsus avevamo tentato diversi anni fa di sollecitare a livello nazionale in questo senso. Ma forse il livello nazionale è lontano, quello regionale può essere la dimensione giusta».
A Roma il Regolamento è stato sottoscritto. Ora? A che punto siamo? Come sta prendendo corpo? Quali le aspettative? Quale la realtà?
«Il Regolamento è stato approvato due settimane fa, siamo ancora in una fase iniziale, ora c’è la vera sfida. La pubblica amministrazione ha investito molto su questo regolamento, ci aspettiamo che il comportamento sia conseguente. In questi mesi, alcune realtà sociali sono state sollecitate, messe in moto, c’è una realità sociale pronta. I patti di collaborazione sono stati già adottati in alcune municipalità, perché la legge della Regione Lazio consentiva, anche a livello municipale, di stipulare patti, anche prima che il Comune approvasse il Regolamento. Alcuni patti sono stati già firmati a Roma e il regolamento sul verde anticipava i patti collaborazione. La realizzazione è già cominciata, ora va fatto il salto di qualità: credo che a questo punto tutta la città possa mettersi in moto e cogliere questa occasione. E sarà interessante vedere la risposta di altri livelli istituzionali. È lo stesso Comune che deve in qualche modo attrezzarsi per questa soluzione: Roma è il comune più grande d’Italia, ha complessità che non sono paragonabili a qualsiasi altro grande comune italiano. La cosa interessante è che il regolamento di Roma prevede l’individuazione di alcuni facilitatori, che non sono necessariamente soggetti della pubblica amministrazione, che avranno il compito di far dialogare le PA con i cittadini».
A questo link l’intervista a Enrico Serpieri, che ha introdotto il primo world cafè, a questo l’intervista a Gianluca Cantisani, che ha introdotto il secondo. Qui l’intervista doppia ad Annalisa Casino e Monica Di Sisto, che hanno introdotto il terzo. Qui l’intervista a Rose Marie Scappin, che, insieme a Beatrice Tabacco, qui l’intervista, sarà nel panel dedicato alle nuove forme di attivismo civico. Qui, invece, l’intervista a Mauro Del Barba, dedicata alle società benefit e al rapporto tra profit e non profit. Qui l’intervista a Franco Parasassi, che interverrà sui rapporti tra profit e non profit.