IO CAPITANO: UN GRIDO DI LIBERTÀ E SOLIDARIETÀ
Io capitano, il film di Matteo Garrone presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, è una storia di migrazioni dall’inizio, che parte dai sogni di chi viaggia. E il controcampo della narrazione sui migranti a cui siamo abituati
12 Settembre 2023
Quel “capitano mio capitano”, da L’attimo fuggente, è considerato uno dei finali più belli della storia del cinema. Ora il grido “Io capitano”, urlato dal protagonista di Io capitano, il film di Matteo Garrone arrivato al cinema in questi giorni, entra di diritto, con premesse completamente diverse, tra i finali più belli visti al cinema. Io capitano è stato presentato all’ottantesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove ha vinto due premi molto importanti, il Leone d’Argento per la Regia e il Premio Marcello Mastroianni al giovane emergente Seydou Sarr, il protagonista della storia.
Il controcampo della narrazione sui migranti
Io capitano è il “controcampo” della narrazione sui migranti a cui siamo, da sempre, abituati ad assistere. Quella che ci propone la cronaca: l’arrivo, gli sbarchi, spesso la morte. Quella è solo la fine della storia. Io capitano ci mostra una storia di migrazioni come tante altre. E lo fa dall’inizio. Il film racconta il viaggio avventuroso di due giovani, Seydou e Moussa (Seydou Sarr e Moustapha Fall, straordinari e vitali attori esordienti), che lasciano Dakar, Senegal, per raggiungere l’Europa. È un’Odissea contemporanea attraverso le insidie del deserto, gli orrori dei centri di detenzione in Libia, le trame delle persone senza scrupoli che gestiscono i viaggi, i pericoli del mare. Sono cose di cui sentiamo parlare, ma che non vediamo mai. E vederle, credeteci, è un’altra cosa.
Fare gli autografi ai bianchi
Io capitano è un film che non è mai banale. Non è un caso, parliamo di Matteo Garrone, un regista che non ha mai fatto un film scontato. La sua nuova opera stupisce fin dalle prime scene, quelle in cui i protagonisti sono “a casa loro”. Colpisce per quei suoi colori accesi, decisi. Sono i colori dell’Africa, della natura e degli abiti delle persone, i colori delle magliette che i due ragazzi indossano, che sono quelle delle squadre europee, il Barcellona, il Borussia Dortmund. Di solito indossate da calciatori miliardari, su di loro, consunte e sbiadite, hanno un altro significato. Che è anche quello di un’aspirazione, la speranza di raggiungere un giorno quel mondo, di farcela, di riuscire attraverso la musica. E, magari, “fare noi gli autografi ai bianchi”. In quelle prime immagini c’è un’atmosfera festosa, gioiosa pur nella povertà del mondo in cui vivono. Tra gli africani c’è dignità e gioia, accanto ai sogni, al desiderio – come è per ognuno di noi – di migliorare la propria vita. E anche quella dei propri cari. Matteo Garrone si è documentato per anni prima di girare questo film. E così ha capito che, oltre a chi migra per scappare dalle guerre, dai mutamenti climatici, da condizioni di fame e disperazione, ci sono anche giovani che hanno il sogno di vivere in Europa, che a loro arriva con i social media. E, anche se vivono una situazione dignitosa, vogliono un lavoro che li faccia vivere meglio, faccia vivere meglio le loro famiglie, li aiuti a realizzarsi.
L’Europa non è come ve la immaginate
È così che nasce il viaggio. Tanti partono anche con un po’ di leggerezza, forse di incoscienza. In ogni caso con i propri sogni. Anche se qualcuno li sconsiglia. “L’Europa non è come ve la immaginate. Quella che vedere in televisione non è la realtà. In Europa fa freddo. C’è gente che dorme per strada. Che muore per strada”, li ammonisce uno che dalle nostre parti c’è stato. Anche se ci vogliono le anime dei morti a cui si chiede il consenso. Ci sono i sogni, come abbiamo detto: quello di diventare qualcuno, un musicista. E, contemporaneamente, trovare i soldi per una casa nuova per la madre e le sorelle. Non c’è mai un sogno personale, ma sempre collettivo. C’è sempre la solidarietà, il pensiero per chi resta. Io capitano è importante per questo: perché, finalmente, vediamo cosa anima chi parte, una cosa che noi non ci chiediamo mai. Vediamo due persone, e non due numeri. È una delle poche volte che vediamo l’inizio della storia di cui siamo abituati a vedere la fine.
Inizia il Viaggio
Dopo 20 minuti, però, inizia un altro film. È più cupo, è più duro. Inizia il Viaggio. E il Viaggio, come sappiamo, è scandito solo da una cosa: i soldi. 100 dollari per un passaporto. 50 per non finire in prigione. Altri 600 per il viaggio, attraverso il deserto, verso la Libia. E altri soldi, 800 dollari, sono quelli che chiede la mafia libica, quelli che sequestrano letteralmente le persone e le costringono a chiamare a casa per chiedere i soldi per il riscatto. Altrimenti si viene torturati, altrimenti si muore.
Una moderna Odissea
C’è la cattiveria delle persone e poi c’è la durezza della natura. È il deserto, di una bellezza abbagliante e di una inospitalità senza pari. Il deserto è tenersi forte sulle macchine mentre corrono sbattendo sui dossi. Se si cade non si ferma nessuno ad aspettarti. È camminare sulle dune. Quelle dune bellissime, estetiche, geometriche, poetiche. Ma anche desolate e mortali, la cosa più crudele che possa capitare di attraversare. È qui che il concetto del Viaggio come moderna Odissea si fa più chiaro, più evidente. È qui che, come sempre in Matteo Garrone, si fa avanti, a piccoli sprazzi, anche la fiaba, con la scena della donna che vola, immaginifica e in fondo dolorosa.
Il terrore vero inizia in Libia
E poi Io capitano cambia ancora e diventa horror. Il terrore vero inizia in Libia. Una volta che si viene catturati c’è un mediatore, che parla l’inglese o il francese, ad avvisare. Quelli che li trattengono non sono né poliziotti né militari. È la mafia libica e chiede altri soldi: 800 dollari. Se non danno il numero di casa, a cui chiamare per il riscatto, vengono torturati, o muoiono. Lo abbiamo già detto, ma è bene ribadirlo. Sono cose che si sanno. Ma vederle è un altro discorso. Anche se Matteo Garrone, in fondo, non indugia sull’orrore. Lo sfiora, ce lo presenta, ma poi va avanti e ci racconta qualcos’altro. Anche per una forma di rispetto verso le persone di cui parla.
Il sogno, il colore, la speranza
Io capitano è un film che si inserisce perfettamente nella filmografia di Garrone. C’è un discorso importante sul corpo, sul martirio della persona, com’era in Primo amore. C’è ancora Gomorra, con le strutture di potere delle criminalità organizzate e le conseguenti vessazioni. Ma anche certi interni fatiscenti e spogli, non luoghi alienati e alienanti come li avevamo visti in Dogman. E poi c’è un Garrone diverso. Meno geniale, meno estremo, più diretto e lineare: quella crudeltà, quella spietatezza dello sguardo tipica dell’autore qui si ammorbidisce un po’. Non è necessaria perché è già così crudele, spietato, quello che racconta. C’è invece il sogno, c’è il colore, c’è la speranza, che può essere anche una serie di getti d’acqua che zampillano da una fontana.
Io capitano: un grido non per sé ma per gli altri
L’acqua è anche pericolo ed è quello l’ultimo ostacolo da affrontare. Il mare, i barconi, la storia che si ricollega a quella che conosciamo e che vediamo quotidianamente. Il viaggio in mare ha una dimensione realistica, con scene d’insieme che sembrano davvero strappate dalla realtà. Ma anche mitica, con quelle luci che sembrano quello che non sono, e aggiungono al Viaggio il senso dell’illusione e del miraggio. Ed eccoci dove avevamo iniziato. Con il protagonista – quello che vediamo è accaduto davvero a un ragazzo in arrivo dall’Africa – che guida la barca fiero e quel “Io capitano” gridato non per sé ma per gli altri. È l’orgoglio di non aver fatto morire nessuno, di aver portato tutti in salvo. È un grido di solidarietà, di comunanza con l’altro. Perché, come diceva un altro grande film, Into The Wild, “la felicità è reale solo se condivisa”.