IO DONO COSÌ. LA SPERANZA CHE SIA SOLO IL PRIMO PASSO
Si è concluso ieri a Bergamo “Io dono così. Storie di giovani che cambiano il mondo”. Il racconto, le impressioni, le aspettative, le perplessità dei ragazzi che hanno partecipato dal Lazio
di Redazione
10 Ottobre 2022
Si è appena concluso a Bergamo Io dono così. Storie di giovani che cambiano il mondo, l’iniziativa promossa da CSV Bergamo, Comune di Bergamo e CSVnet. In occasione di Bergamo Capitale Italiana del Volontariato 2022, sabato 8 e domenica 9 ottobre circa 500 giovani volontari provenienti da tutta Italia e individuati grazie al lavoro dei Centri di Servizio, si sono incontrati per condividere le loro esperienze di attivazione e scrivere insieme dieci lettere all’Europa attraverso le quali far ascoltare la loro voce su tematiche di interesse generale: ambiente, giustizia e legalità, parità di genere, pace, salute e benessere, territorio, cultura, cittadinanza e partecipazione, opportunità, dono. Vi raccontiamo com’è andata attraverso le impressioni di Claudio Tosi, esperto di Servizio Civile e responsabile Servizio Civile CSV Lazio e dei ragazzi che proprio dal Lazio sono partiti alla volta di Bergamo.
Claudio Tosi: servono i giovani in diretta, e senza rete
Le equipe territoriali dei CSV italiani hanno aderito con entusiasmo all’invito di CSV Bergamo di radunare per due giorni una ampia rappresentanza di giovani volontari, per costruire insieme un profilo delle caratteristiche, dei desiderata e delle richieste al mondo degli adulti e delle istituzioni. E il nostro coordinamento nazionale, CSVnet ha appoggiato con attenzione e intelligenza la manifestazione Io dono così, sostenendone il protagonismo e la rete. La manifestazione è stata un successone per la mole di persone che ha aggregato, le personalità coinvolte, sia regionali che nazionali; l’organizzazione impeccabile, nonostante difficoltà logistiche e imprevisti sindacali, ha visto delegazioni da tutta la penisola e ha generato quell’entusiasmo da relazione condivisa che solo i ragazzi sanno scatenare.
Personalmente dichiaro di essere perplesso e soddisfatto. Soddisfatto perché è la manifestazione più curata, partecipata e coraggiosa che potevamo aspettarci, e sono veramente grato all’equipe del CSV Bergamo per averla così generosamente condotta e impostata. Ma rimango per alcuni aspetti perplesso, e questo a ben guardare è un secondo motivo di plauso e gratitudine verso gli organizzatori. La premessa di dare voce e visibilità alle idee dei giovani è stata certamente perseguita. Grazie alla strutturazione di dieci gruppi di lavoro condotti con metodologie partecipate che hanno costruito articolazioni e temi a partire dall’ascolto dei partecipanti e che li hanno sostenuti nell’esprimersi e favoriti nelle sintesi, più di 400 giovani si sono coinvolti e hanno dato il proprio contributo. Ma queste voci ingenue e genuine, di cui parlerò poi, sono state offerte inscatolate in un contenitore laccato e infiocchettato, frutto, è vero, di un’ azione preventiva e partecipata anch’essa, ma forse presentato alle assemblee tematiche in maniera troppo strutturata per essere plasmabile senza rischiare di frantumarla. L’impressione che lascia è un po’ quella dei “lavoretti” delle materne che al tocco dei bambini aggiungono un lungo lavoro solitario delle maestre. Le dieci lettere all’Europa che i giovani hanno presentato in plenaria, fino a quanto si prendono il rischio di esprimersi con il loro linguaggio? Cosa si guadagna e cosa si perde ad affidare le proprie idee, discusse con onestà ed entusiasmo ad un ghost writer che cercherà di inserirne degli accenni al testo già strutturato? Quanto è un procedimento formale e quanto di sostanza, e quali conseguenze porta con sé?
Lo stupore che ho provato in questa due giorni, rispetto ai gruppi che ho potuto seguire, è stata la mancanza di conflittualità, la possibile giustapposizione di ogni accento o direzione, per quanto particolare o asintotica fosse. Una serenità tale da non individuare nessun “nemico esterno” e che allo stesso mondo adulto e istituzionale si rivolge chiedendo spazi e attenzione, riuscendo a mettere in positivo ogni pur presente accenno a mancanze e frustrazioni. È la bontà dei volontari? Il loro senso della complessità? La forza serena di chi sa che solo la ripetizione indefessa delle proprie idee porterà alla fine al risultato? In fondo Gandhi sapeva che prima di vincere si sarebbe stati denigrati e combattuti, è la sua lezione che vedo messa in pratica? O è la disillusione positiva, quella di chi sa quanto sia inutile farsi il sangue amaro a discutere, tanto è stato tutto già deciso? Ho in cuore il monito di due formidabili pacifisti e volontari, che hanno messo nella loro azione nonviolenta una radicalità di cui oggi mi mancano le coordinate: Capitini con la sua noncollaborazione e Don Sardelli, con il suo Non tacere. Non tacere e noncollaborare, a cosa, con che piglio, con quale sentimento e/o veemenza? Non ho ascoltato categorie politiche in questi due giorni: non ci sono classi, interessi contrapposti, privilegi difesi o diritti negati. I soldi non vanno pretesi (siamo stati ringraziati dal mondo bancario per non averlo fatto) e non sono i diritti negati a muovere la necessità, ma la sensibilità e il senso di giustizia, la ricerca della pace sociale, l’inclusione, da costruire per gentilezza e benevolenza. Un buon interlocutore è individuato ne “l’imprenditore illuminato” a cui il volontariato porta o valori e dalla cui sagacia si aspettano i mezzi. Un concreto elemento di critica, che pure arriva come invito a superarlo, è rivolto al proprio mondo, all’autoreferenzialità associativa, alla proliferazione di iniziative contigue ma non interagenti, che toglie forza alla rete e imbriglia i giovani, più pronti a darsi per un risultato, a vestire invece una appartenenza, che è vissuta spesso come peso, quando non è assunta come una bandiera. Una critica, questa del non saper fare rete, paradossalmente assolta dal rappresentante del gruppo San Paolo, che ci dice che la capillarità è una “inefficienza apparente”, andando in senso opposto a tutte le spinte alla concentrazione a cui il terzo settore è sottoposto, contro natura, legge dopo legge. Come esita questa riflessione? Che giudizio sulla due giorni si Bergamo? Pienamente positivo per il coraggio, la preparazione e la gestione di questa azione corale che ha dato concreta voce e possibilità di espressione ai giovani. Responsabilizzante e sfidante per chi vorrà prendere il testimone, come ci ha invitato a saper fare sempre più e meglio il Vicepresidente dell’ANCI. Perché la prossima volta sarà opportuno sguarnire la griglia dei risultati da un discorso già costruito grazie all’ascolto, ma non con le parole dei giovani, e si potrà tentare un vero esercizio di educazione nuova, recuperando l’esempio di Freinet e di Lodi e mettendo i giovani alla prova di una loro compiuta capacità di espressione, con la stesura di un proprio testo, in diretta e senza rete.
Margherita Cotugno: si cresce solo se sognati
Io dono così ha dato ai volontari provenienti da tutta Italia l’opportunità di trattare temi come la pace e la giustizia e, di raccontare le proprie esperienze di vita, per poter riflettere sul significato del dono. Nella mattinata di sabato 8 ottobre si è tenuto l’incontro con il giornalista e scrittore Roberto Saviano che ha affermato che la nostra è una scelta di cuore e di coraggio e, attraverso il suo ultimo libro Solo è il coraggio (Bompiani, 2022 ), ha lanciato messaggi di fiducia e ha invitato noi giovani a scegliere sempre la strada della verità, prendendo esempio da personaggi che hanno fatto la storia, come ad esempio Giovanni Falcone, ma senza preoccuparci delle conseguenze. Ha concluso l’incontro con la frase: “Si cresce solo se sognati”, con cui vuole ricordarci che è possibile crescere, se c’è qualcuno con te che aspetta di vederti germogliato. Dobbiamo supportare coloro che hanno bisogno di aiuto, perché così facendo diamo loro la possibilità di trovare una via d’uscita.
Miriam Filosa: più spazio alla nostra voce
Quella di Io dono così stata un’esperienza molto interessante, nuova e piacevole da tanti punti di vista. È stato stimolante incontrare e comunicare con volontari provenienti da tutta Italia che vivono delle realtà molto diverse da quella propria e che impegnano il proprio tempo in qualcosa in cui credono, nonostante le difficoltà delle situazioni. Vedere ragazzi con la tua stessa volontà, con il tuo stesso desiderio di cambiamento e capire quanto ognuno nel proprio piccolo aiuti la comunità a migliorare, mi ha arricchito a livello personale. L’idea di coinvolgere i giovani e dargli uno spazio dove poter discutere, dibattere e pensare è un qualcosa che mancava e manca in Italia e questa è stata un’occasione per incontrarci e poterlo fare. Un’idea che dovrebbe essere presa come esempio anche in ambiti più ampi rispetto a quello del volontariato e che sicuramente dovrà ripetersi. Tuttavia non mancano delle critiche da fare. Se l’obiettivo ultimo avrebbe dovuto essere quello di scrivere delle lettere indirizzate alle istituzioni nazionali ed europee, base di partenza per fare luce sulle tematiche dibattute, per far sentire il nostro punto di vista su ciò che non va in Italia, la lettera avrebbe dovuto essere al centro delle giornate e non al margine. Non è stato possibile, ad esempio, per il mio gruppo, rileggerla, modificarla, aggiungere e dire la nostra, prima della presentazione sul palco dell’Auditorium nella giornata di Domenica 9. Infatti, è stata modificata in maniera unilaterale dalla responsabile del tema del mio gruppo. Certo, in base a ciò che si era detto durante la discussione del giorno prima ma, senza passare attraverso l’ascolto da parte di noi volontari. Durante la lettura questa mancanza è stata avvertita. Sono state tralasciate tematiche importanti prediligendo la parte retorica e narrativa di ciò che l’Europa rappresenta e di ciò che rappresenta il volontariato in Europa, prediligendo un tipo di discorso astratto e generale senza porre davvero l’attenzione su qualcosa e quindi, anche le risposte sono state altrettanto vaghe, spesso piene di “grazie” o “bravi” piuttosto che di parole che potessero dare l’idea che avevano veramente ascoltato e capito. In conclusione, noi siamo stati davvero bravi secondo il mio punto di vista, in poche ore siamo riusciti a spaziare su tanti temi e a dare anche soluzioni, proposte, idee… da parte nostra c’è stato davvero tanto impegno che non è riuscito a venir fuori attraverso la lettura della lettera, un po’ per i tempi ristretti, un po’ perché la modalità scelta è stata troppo “diplomatica”. Comunque, speriamo che anche le istituzioni siano state brave ad ascoltare e che mettano in pratica le nostre richieste.
Davide Notorantonio: un fulmine disperso a terra
A Bergamo è passato un fulmine. Era bellissimo, con tante striature rosa e celesti, compatto, potente, che sconquassa i cuori delle persone. Ma è innocuo; colpisce il suolo, si disperde, tutti se ne dimenticano. Forse era proprio l’intenzione di Zeus: quella di scagliare un bellissimo fulmine per dimostrare la sua potenza, ma senza lasciare al fulmine la possibilità di esprimersi come merita. Chissà se mai un giorno Zeus prenderà la scossa.
Francesco Petrella: lottare come Giuseppe per essere, un giorno, Emilia
A Bergamo, l’ex carcere di Sant’Agata, luogo di prigionia fino al 1978 e negli ultimi sette anni diventato bene comune gestito dall’associazione Maite, conserva ancora, protetta da una teca, la lettera che l’operaio antifascista Giuseppe Sporchia scrisse alla figlia Emilia, a pochi giorni dalla propria condanna a morte. È una lettera che lascia impotenti davanti alla sua chiarezza, quella di un uomo che sa di poter contare solo sull’ultima parola, definitiva, per riuscire a dipingere, per la figlia, un futuro in cui valga la pena credere, intravisto da lontano ma non disperato. «[…] e sii orgogliosa di tuo padre che nonostante tutto qui ti giura che mai fece del male ad alcuno». Oggi, a Bergamo, sono state scritte altre lettere. Il contesto è cambiato e chi le ha scritte è lontano dal periodo tragico vissuto da Sporchia; lettere che non vivono della stessa chiarezza e dello stesso amore. Però Bergamo è percorsa da volti che tracciano storie di lontananza, perdita e marginalità. Oltre la retorica che sempre serpeggia, qui ci sono umani che cercano risposte complesse a un futuro complesso e affondano i piedi e le mani nel presente, in attesa di una speranza o di fiducia. Da domani dovremo lottare e amare come Giuseppe per poter essere, un giorno, Emilia.
Jessica Eterno. Solo il primo passo
Io dono così è stata una scommessa sulla possibilità di creare un momento nuovo di incontro e di condivisione. Abbandonando l’ultima delle sale che hanno ospitato centinaia di ragazzi provenienti da tutta Italia, sembra impossibile non ammettere che la scommessa sia stata vinta: dagli spazi alla stanchezza, dalle domande ai progetti, tutto è stato condiviso. Tutto è stato esplorato, indagato e atteso con l’altro.
Eppure, riguardando ai giorni appena trascorsi, non si può evitare di pensare che questo sia stato solo il primo, incerto passo di un’entità appena nata, che aspetta ancora di trovare la sua strada. Questa parla con una nuova e prorompente forza, perché la sua voce è un coro di centinaia di voci che urlano tutte le stesse parole.
Ma se è vero che una voce così ampia riesce a coprire maggiori distanze, è vero anche che questa rischia di schiacciare e appiattire le differenze, e con esse, le identità che le custodiscono. La creazione di una voce unica non può e non dovrebbe soddisfarsi in un momento isolato, ma dovrebbe scavare, sviscerare e accogliere tutte le sfumature possibili, per evitare il rischio che questa racconti una storia che, cercando di parlare per tutti, non parli di nessuno. E, nell’attesa che questa voce diventi davvero umana, l’augurio è che riesca a costruirsi tanto dirompente quanto autoconsapevole, e che arrivi a guadagnarsi il coraggio di dire che è anche arrabbiata, anche stanca, anche disillusa. Se questo primo passo ha indicato una direzione e ha formato una voce, il prossimo passo dovrà forse ricercare la schiettezza e la sincerità di dichiarare anche le perplessità e la paura di non essere ascoltati, di vedere i propri bisogni illuminati dalla luce dei riflettori solo per essere poi accantonati e ignorati ancora una volta. Allora forse, al termine dell’esperienza di Bergamo si può solo lanciare una seconda scommessa: che il lavoro iniziato non si consideri ancora soddisfatto di sé, ma che si evolva e si muova, un passo alla volta, alla ricerca non solo di uno spazio di condivisione, ma anche di uno spazio di confronto reale con chi, dall’altra parte, si dichiara in ascolto ma è ancora distratto.
Martina Cristiano: la concretezza della condivisione
Io dono così è stata un’occasione. L’occasione di raccontare e vivere esperienze nuove, vicine e lontane dal proprio vissuto. “Io dono così” è lo slogan utilizzato per spiegare in modo semplice cos’è il volontariato o, in realtà, come dovrebbe essere. In due giorni abbiamo donato le nostre conoscenze e cercato di legare il più possibile le nostre percezioni su quello che noi ragazzi e ragazze facciamo ogni giorno: immetterci in un mondo che dovrebbe essere più concreto, meno retorico e con possibilità infinite. Perché il volontariato è fatto di esperienze vere, di persone che aiutano altre persone, in qualsiasi modo possibile a prescindere da qualsiasi discorso o dottrina o legge morale. Il fine doveva essere scrivere delle lettere all’Europa che accoglie, partendo dal locale arrivando al globale. Non c’era concretezza nelle cose ho sentito nelle lettere, ma c’era, forte, nella condivisione che ho fatto con le persone, c’era nei loro gesti, nei loro racconti, nelle loro idee. Idee che vogliamo vedere realizzarsi, non come sogni ma come pensieri reali. E sono state proprio le persone, reali, ad essere il centro di tutto, ad essere il “dono” dell’evento.